Europa e Italia 45-89


Le conseguenze politiche della seconda guerra mondiale

1- Il nuovo contesto internazionale

Nel periodo 1943-45, quando cioè il conflitto era ancora in corso, ebbero luogo due incontri dei leader degli Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Sovietica: Roosevelt,Churchill e Stalin. Il primo nel novembre 1943 a Teheran, il secondo nel febbraio 1945 a Yalta, in Crimea. Nel luglio-agosto 1945 un convegno tenutosi a Potsdam (in Germania) definì infine le condizioni della pace.

La questione cruciale discussa dai «tre grandi» riguardava l'assetto dell'Europa postbellica, a cominciare dalla sorte dei paesi sconfitti. Il caso dell'Italia era stato affrontato e risolto per primo e la soluzione prescelta su proposta degli anglo-americani - affidare il controllo del paese agli eserciti delle nazioni che lo avessero sconfitto - divenne poi la regola per risolvere casi analoghi. In prima istanza, cioè, le sfere di influenza delle potenze vincitrici furono dettate dalla situazione militare. L'Urss si vide così riconoscere non solo le frontiere del 1941, ma anche una cintura di sicurezza di «governi amici», ossia soggetti alla sua influenza determinante: l'esatto opposto del «cordone sanitario» che le maggiori nazioni europee avevano costruito in funzione antisovietica nel primo dopoguerra.
Nel contempo, però, il potere globale della Gran Bretagna si trovò a perdere terreno: emblematica fu la perdita nel 1947 della «perla» dell'impero coloniale britannico, l'India, che divenne indipendente grazie alla guida del Mahatma (in lingua hindu »grande anima») Gandhi. Protagonisti restarono gli Stati Uniti e l'Unione sovietica. Per la prima volta il baricentro del potere mondiale si spostava fuori dal vecchio continente europeo. Nel contempo, per la prima volta, il mondo intero si trovò diviso a metà, in zone di influenza riconducibili a Stati Uniti e Unione Sovietica, depositarie di sempre più numerose e sempre più potenti armi nucleari. Queste due potenze dettero drammatico corpo a una «guerra fredda» (definizione del noto giornalista americano Walter Lippman) sempre sul punto di riscaldarsi in conflitto armato vero e proprio. Per ogni paese del mondo i termini stessi del rapporto tra politica estera e politica si trasformarono. L'egemonia delle due superpotenze, infatti, non si limitava - come era sempre accaduto in passato - al loro predominio militare, bensì si traduceva in un modello politico-istituzionale e di crescita economica al quale rifarsi: scegliere la protezione e l'alleanza diplomatica di una delle due significava necessariamente anche scegliere un'idea precisa di società.
StalinL'Unione Sovietica era stata il paese che durante la guerra aveva subito il maggior numero di perdite umane e le distruzioni più gravi. Per i suoi dirigenti la divisione dell'Europa in zone d'influenza doveva offrire le «garanzie di sicurezza» necessarie perché non si verificassero nuove aggressioni. Il 9 febbraio 1946, parlando al teatro Bolscioj di Mosca, Stalin adombrò l'inevitabilità di un conflitto tra mondo socialista e mondo capitalista. Pochi giorni dopo un esperto del Dipartimento di stato americano, George Kennan, espresse il timore di una virata espansionistica della politica sovietica e suggerì di «contenerla» con ogni mezzo. Un mese più tardi Churchill, parlando nel Missouri, alla presenza del nuovo presidente americano Truman, mise in guardia gli occidentali dalla «cortina di ferro» con cui i sovietici avevano circondato l'Europa centro-orientale. All'inizio del 1947 la Gran Bretagna annunciò di non poter più fornire aiuti finanziari e militari alla Turchia e alla Grecia, dove era in atto una guerra civile tra i comunisti e il governo monarchico tornato al potere nel 1944 con l'appoggio inglese.
Chiedendo al Congresso degli Stati Uniti di autorizzare un intervento finanziario in quei paesi, il 12 marzo 1947, il presidente americano enunciò infine quella che divenne nota come «dottrina Truman», considerata come la dichiarazione formale della guerra fredda: gli Usa si sarebbero sentiti minacciati da qualunque»aggressione Truman contro la pace e la libertà ed avrebbero aiutato in ogni modo i popoli liberi a difendersi dai «tentativi di asservimento da minoranze o di pressioni esterne».
Gli avvenimenti dell'Europa centro-orientale non lasciavano dubbi su chi fosse il destinatario di tale dottrina. Tra il 1946 e il 1947 in Bulgaria, Romania, Polonia e Ungheria le coalizioni guidate dai comunisti avevano stravinto le elezioni ed esteso la loro presenza nelle istituzioni e in ogni luogo di potere. Tra il 1947 e il 1948 in quegli stessi paesi e in Cecoslovacchia (oltre che in Jugoslavia e in Albania, dove i comunisti avevano guidato la resistenza antitedesca prendendo il potere senza l'aiuto dell'Armata Rossa) i partiti comunisti erano ormai divenuti gli unici titolari del potere dopo aver estromesso e bandito le formazioni politiche nemiche e concorrenti.
Gli alleati europei degli Stati Uniti,che dipendevano dall'«ombrello» nucleare americano, rimanevano i più esposti a un'eventuale attacco o rappresaglia da parte sovietica.
Nel 1952 Italia, Gran Bretagna, Francia, Olanda, Lussemburgo, Belgio e Germania occidentale firmarono un'alleanza militare denominata Comunità europea di difesa, dopo la Comunità del carbone e dell'acciaio formata nel 1951 da Francia, Germania, Italia e Benelux. La Comunità europea di difesa rappresentò l'ambizioso tentativo di dotare il vecchio continente di un apparato difensivo autonomo, anche se integrato nella Nato (North Atlantic Treaty Organization): l'unione militare con gli Stati Uniti. Il 1955 fu quindi l'anno in cui si cristallizzò la divisione dell'Europa. Nello stesso mese in cui la Germania occidentale entrò nella Nato, i paesi dell'Est europeo (Polonia, Ungheria, Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Germania Orientale) stipularono infatti il Patto di Varsavia: un trattato di cooperazione e mutua assistenza che stabilì un comando militare unificato sotto la guida dell'Unione Sovietica.
In funzione della nuova situazione internazionale e con l'obiettivo di elaborare nuove regole di diritto internazionale, nel 1945 fu costituita l'Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).L'obiettivo dichiarato è di "salvare le generazioni future dal flagello della guerra" e di impiegare "strumenti internazionali per promuovere il progresso economico e sociale di tutti i popoli". L'Onu si articola nella Assemblea generale degli Stati membri e nel Consiglio di sicurezza composto da 15 stati. Il Consiglio di sicurezza, in caso di crisi internazionale, ha il potere di prendere decisioni vincolanti per gli stati e di adottare misure che possono giungere fino all'intervento armato. Il Consiglio di sicurezza è composto da 15 stati di cui 5 permanenti: Usa, Urss, Gran Bretagna, Francia,Cina. Ciascuno dei membri permanenti gode di un diritto di veto con il quale può bloccare le decisioni del Consiglio. L'Onu è stato lo specchio della conflittualità internazionale, ma anche un centro di contatti e consultazioni nonchè una tribuna mondiale dove ogni Stato ha fatto sentire la sua voce .

2- I decenni del grande sviluppo in Occidente

Il quarto di secolo successivo alla seconda guerra mondiale è stato considerato da storici ed economisti come una golden age, una «età dell'oro» contraddistinta da uno sviluppo economico impetuoso che, com'era accaduto soltanto nel periodo che va dal 1870 alla prima guerra mondiale, non fu interrotto da alcun momento di stasi o di crisi congiunturale. Tuttavia, se dal 1870 al 1913 il reddito pro capite del mondo era cresciuto dell'1,3% all'anno, questo ciclo espansivo lo incrementò in media del 2,9%. Uno sviluppo senza precedenti, dunque, che però non fu esteso in ugual misura a tutto il globo ma interessò soprattutto i paesi a capitalismo sviluppato e, in quest'ambito, particolarmente il Giappone e l'Occidente europeo. Mentre negli Stati Uniti il reddito pro capite crebbe del 2,5% all'anno, tra il 1950 e il 1973 il Giappone fece registrare un eccezionale 8,1%. L'Europa occidentale si attestò sul 4,1.
Una delle condizioni che facilitarono tale crescita fu la stabilità del sistema monetario internazionale, rigidamente ancorato al dollaro come moneta base, che venne decisa nel 1944 da una conferenza internazionale svoltasi a Bretton Woods, negli Stati Uniti. Facendosi carico di una stabile conversione del dollaro in oro, gli Stati Uniti assumevano compiutamente il ruolo di superpotenza economica. Queste misure favorirono un eccezionale sviluppo degli scambi commerciali: il tasso di crescita globale delle esportazioni, che nel 1913-50 era stato dello 0,9% annuo, balzò nel 1950-73 al 7,9%. La politica di cooperazione impostata a Bretton Woods ebbe un primo fondamentale momento di attuazione nel piano Marshall (dal nome dell'allora segretario di stato statunitense), un piano di massicci aiuti economici ai paesi dell'Europa occidentale, ma venne perseguita anche attraverso una serie di organismi che scandirono le tappe dell'integrazione europea: nel 1947 il General Agreement of Tariffs and Trade (Gatt); nel 1948 l'Organizzazione per la cooperazione economica europea, trasformatasi nel 1961 nell'Organizzazione per la cooperazione economica e lo sviluppo (Ocse) che raggruppava (e raggruppa) tutti i paesi più sviluppati del mondo; nel 1950 l'Unione europea dei pagamenti; nel 1951 la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca); nel 1957 la Comunità economica europea (Cee).
Lo stato dopo il 1945,si fece imprenditore,banchiere, regolatore e pianificatore. L'intento era di sostituire l'iniziativa privata, dove era carente ,di combattere monopoli e rendite, di affermare l'interesse collettivo su quello privato, di potenziare i servizi pubblici, di combattere la disoccupazione. A sostenere questo interventismo statale , combattuto dai liberal-liberisti, fu la sinistra nelle sue varie espressioni: liberale,cattolica,laburista, socialdemocratica,comunista. Questo ebbe luogo, pur con modalità specifiche, in tutti i paesi dell'Europa occidentale, in Canada, in Giappone.
Un secondo aspetto, che caratterizzò in questo periodo i paesi sviluppati, fu il consolidamento dello stato del benessere,il Welfare state:estensione dell'istruzione obbligatoria,assegni familiari, leggi sugli infortuni del lavoro, servizio sanitario nazionale, misure a sostegno degli anziani, dei disoccupati e degli ammalati, costruzione di case popolari, allargamento del sistema pensionistico.
Il Welfare, finalizzato a ridistribuire le risorse a favore dei ceti più deboli, comportò un progressivo appesantimento del prelievo fiscale. Si consideri che all'inizio degli anni novanta la spesa sociale,calcolata in percentuale del PIL, oscillava tra il 12,4 del Giappone e il 15,6 degli USA e il 38,0 della Svezia. L'Italia aveva una posizione intermedia con il 25,0
Dopo il 1945 l'Europa occidentale ha vissuto un lungo periodo di stabilità politica ed istituzionale. La sola eccezione è costituita dalla Grecia dove i "colonnelli" per 7 anni - dal 1967 al 1974- stabilirono un regime autoritario di destra che costituì anche punto di riferimento dei settori estremisti della destra europea. Successivamente, a metà degli anni '70, caddero i regimi autoritari della destra in Spagna e Portogallo. La presenza di forti partiti comunisti in Francia ed in Italia non superò mai le frontiere della legalità.
Il movimento giovanile del 1968 investì sostanzialmente tutta l'Europa occidentale e gli Usa coinvolti nella guerra del Vietnam. In Germania ed in Italia il movimento si espresse più pesantemente. Alcune sue frange,in questi due paesi, svilupparono anche attività terroristiche. Nel nostro paese il terrorismo fu più intenso. Il sistema democratico fu però difeso con successo sia dai partiti di maggioranza al governo,sia dall'opposizione comunista e dai sindacati.
In sostanza la storia dell'Europa occidentale,nel trentennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale, è stata caratterizzata dallo sviluppo produttivo,dalla diffusione del Welfare,dalla solidità delle istituzioni democratiche.

L'Italia dalla Liberazione alla fine della guerra fredda

1- L'Italia 1945-48: strutturazione di un paese di frontiera

L'Italia del 1945 era un paese profondamente diviso. Nel meridione il conflitto era già finito da un anno, il pane costava il doppio a causa del precoce ritorno all'economia di pace, l'autorità della monarchia non si era mai interrotta e la presenza organizzata dei partiti antifascisti era più dispersa e frammentata. Nel nord, invece, la lotta partigiana aveva trasmesso una grande autorità agli uomini del Cln (Comitato di liberazione nazionale) e nello stesso tempo suscitato la paura di industriali e agrari, posti di fronte al pericolo concreto di un governo di sinistra: una paura ravvivata dallo strascico di violenze private ai danni di ex fascisti, che si concentrarono particolarmente nel cosiddetto «triangolo della morte» tra Emilia e Romagna.
Anche i partiti che si erano riaffacciati alla vita pubblica durante la guerra - dopo la lunga clandestinità cui erano stati costretti dalla dittatura di Mussolini - erano molto cambiati rispetto al periodo prefascista. A partire dalla metà degli anni trenta le necessità della battaglia antifascista avevano spinto il partito socialista e il partito comunista a smorzare la rivalità che li aveva divisi fin dal 1921. La Democrazia cristiana, costituita alla fine del 1942 dalle ceneri del Partito popolare, si proponeva di organizzare politicamente i cattolici, grazie alla ricucitura dei rapporti con la Santa Sede che i suoi leader e soprattutto il trentino Alcide De Gasperi erano riusciti a tessere negli ultimi anni del conflitto. Anche il Partito d'Azione era nato alla fine del 1942, sulla base di una convergenza tra il movimento liberalsocialista (di Guido Calogero, Aldo Capitini, Tristano Codignola) e quello di Giustizia e libertà, erede dei fratelli Rosselli e guidato da Ferruccio Parri, figura di spicco della Resistenza. Completavano il quadro il Partito liberale e la Democrazia del lavoro, che occupavano la destra dello schieramento politico. Nel 1944 a Roma era stata infine ricostituita la Confederazione generale italiana del lavoro (Cgil), il sindacato di tutti i lavoratori.
Come già era accaduto nel primo dopoguerra, la ripresa post-bellica pose con forza il problema di una integrazione delle masse popolari nelle istituzioni politiche. Come nel 1919 questa integrazione prese la forma di un'ascesa dei moderni partiti di massa. Ma a differenza di quanto era accaduto nel primo dopoguerra, il processo di integrazione non venne bruscamente interrotto da una reazione violenta e dette anzi luogo - per la prima volta nella storia d'Italia - a una nuova Costituzione, espressione di un'Assemblea Costituente eletta direttamente dal popolo. Si realizzava così, con un secolo di ritardo, l'aspirazione politica dell'ala più radicale, mazziniana e garibaldina, del Risorgimento italiano. Il 2 giugno 1946 si tennero contemporaneamente il Referendum istituzionale e le elezioni per l'Assemblea Costituente che avrebbe dovuto redigere la nuova carta costituzionale. La repubblica vinse di misura sulla monarchia (12 milioni di voti contro 10 milioni) e larghe zone del Mezzogiorno, sia rurali sia urbane, espressero schiaccianti maggioranze monarchiche: segno della differenza profonda che l'esperienza politica della Resistenza aveva scavato tra il nord, che l'aveva vissuta in prima persona, e il sud, che salvo sporadici casi - come le quattro giornate di Napoli - vi aveva partecipato in tono molto minore. La Dc risultò di gran lunga il partito più forte, conquistando il 35% dei voti e 207 seggi, contro il 20% e i 115 seggi del Psiup e il 18% e i 104 seggi del Pci. Il Partito d'azione (7 seggi) andò incontro a una sonora sconfitta che provocò lo scioglimento del partito: il grosso dei militanti, guidati da Riccardo Lombardi, confluì nel partito socialista mentre Parri e Ugo La Malfa entrarono nel partito repubblicano. 
La Costituente rappresentò una rottura storica per il popolo italiano, che per la prima volta partecipava in forma indiretta, attraverso l'elezione dei propri rappresentanti, alla formazione dello stato. Così l'Assemblea costituente fu il luogo d'incontro tra culture politiche e civili assai diverse: quella cattolica, quella liberale, quella marxista. Su alcuni punti - come per l'articolo 7 che riconosceva il Concordato del 1929 - cattolici, marxisti e liberali trovarono un compromesso. Su altri, come i princìpi fondamentali del riconoscimento dei diritti umani e del rifiuto della guerra, raggiunsero un punto di sintesi significativo. Il testo della nuova Costituzione prevedeva un patto tra cittadini fondato sul lavoro ma anche sulla difesa della società civile da ogni eccessiva ingerenza dello stato, secondo il garantismo della tradizione liberale e l'insegnamento negativo ricavato da un'esperienza autoritaria e statalista come quella fascista. In particolare l'articolo 3 fissava come compito della Repubblica la realizzazione di quelle condizioni di eguaglianza economica indispensabili per il pieno sviluppo della persona umana.
La Costituzione italiana delineò quindi un percorso di trasformazione dello stato, che prevedeva la creazione di alcuni nuovi strumenti: per il controllo della legittimità costituzionale delle leggi la Corte costituzionale che venne istituita nel 1956, (8 anni dopo l'entrata in vigore della Costituzione);per la garanzia e l'indipendenza dell'ordine giudiziario l'Istituto Superiore della Magistratura costituito nel giugno del 1959,(11 anni dopo) e per il decentramento amministrativo (le regioni). Queste ultime vennero istituite subito nei casi considerati eccezionali, per ragioni geografiche o etniche, di Sicilia, Sardegna, Valle d'Aosta e Trentino-Alto Adige (le cosiddette regioni a statuto speciale). Le 15 regioni a statuto ordinario, malgrado quanto affermato dal testo costituzionale -"Le elezioni dei Consigli regionali.....sono indette entro un anno dall'entrata in vigore della Costituzione"- dovettero invece attendere 22 anni fino al 1970: un ritardo che fu il frutto sia delle preoccupazioni legate all'esistenza di movimenti autonomisti, sia della resistenza dei partiti di centro-destra a istituire nuovi organismi di governo che soprattutto nel centro-Italia sarebbero stati prevedibilmente conquistati dalle sinistre. Molte altre scelte concrete della Costituzione furono il frutto di una naturale contrapposizione all'esperienza fascista: la preminenza di un parlamento bicamerale perfetto (nel quale cioè Camera e Senato ricoprono identiche funzioni legislative) rispetto al potere esecutivo del governo, l'indipendenza e l'autonomia della magistratura, la legge elettorale proporzionale. Si trattava, in definitiva, di salvaguardie ritenute indispensabili contro ogni possibile ritorno di autoritarismo.
Per molti aspetti quindi l'attività della Costituente - che dette luogo alla nuova Costituzione entrata in vigore all'inizio del 1948 - rappresentò un motivo di unità tra i partiti antifascisti, per altro confortata dalla prosecuzione della coalizione governativa tra quelli che erano stati i partiti del Cln. A mettere in crisi questa unità, tuttavia, intervenne il mutare della situazione internazionale e l'avvio della guerra fredda. Il piano Marshall rappresentò il fattore discriminante per un ingresso a pieno titolo dell'Italia nel sistema di alleanze diplomatiche e militari che aveva centro a Washington e che fu ufficializzato nel 1949 con l'adesione dell'Italia alla Nato. De Gasperi agì con decisione per assumere il ruolo di cerniera imprescindibile in questa nuova collocazione internazionale del paese: il suo viaggio negli Stati Uniti all'inizio del 1947 servì a definire i dettagli di questo asse privilegiato, che comportava l'esclusione delle sinistre filosovietiche dal governo.
Anche alla Casa Bianca, infatti, si guardava con preccupazione alla situazione sociale dell'Italia che suscitava particolari motivi di allarme in quanto offriva molti motivi di consenso all'opposizione di sinistra. Già nel corso del conflitto, nonostante l'occupazione militare alleata, i contadini meridionali avevano rivendicato la divisione del latifondo e una redistribuzione della terra. Tra il 1944 e il 1945 una grande ondata di manifestazioni, scioperi e occupazioni di terre aveva chiesto che la grande proprietà terriera fosse assegnata ai contadini senza terra. Una serie di decreti emanati dal ministro comunista dell'agricoltura Fausto Gullo cercò di favorire questa trasformazione, ma l'opposizione dei grandi proprietari terrieri fu accanita e ricorse anche alla violenza per spezzare il movimento dei contadini e vanificare i decreti Gullo. Nel settembre 1944 a Villalba, paese dell'entroterra siciliano, le bande mafiose spararono sulla folla che si era riunita per ascoltare un comizio del comunista Girolamo Li Causi, provocando 14 feriti.
Anche nell'Italia del centro-nord le campagne furono percorse da scioperi e moti di protesta finalizzati alla conquista di più eque condizioni di lavoro, al miglioramento dei patti colonici nel senso di una ripartizione del prodotto più favorevole ai contadini, al controllo del collocamento al lavoro dei braccianti e degli altri lavoratori dei campi. Tornarono così a fiorire in tutto il paese le leghe, le cooperative e le organizzazioni del movimento contadino che il fascismo aveva cancellato con la forza. Con gli scioperi del 1943 e del 1944 nei centri industriali del nord(ancora sotto il dominio nazifascista) si era manifestato un nuovo protagonismo degli operai, che dopo la fine della guerra si convogliò nella parola d'ordine dei Consigli di gestione: nuovi organi di governo dell'impresa in cui fossero presenti i rappresentanti degli operai accanto a quelli dei datori di lavoro. Ma questi organismi non vennero mai riconosciuti sul piano legislativo e di fatto operarono solo in casi sporadici. Tuttavia in questi episodi di conflittualità sociale trovava sbocco la parte del popolo italiano che aveva creduto nella Resistenza non solo come guerra di liberazione nazionale contro tedeschi e fascisti, ma anche come guerra di classe contro i padroni per la trasformazione dei rapporti di potere nella società, secondo la definizione che ne ha dato lo storico Claudio Pavone nel libro Una guerra civile (1991). Ma le rivendicazioni economiche dei ceti popolari si scontravano sia con le dure necessità della ricostruzione e i danni (sia pur non gravissimi) sofferti dalla base produttiva industriale e agricola, sia con l'opposizione frapposta dagli imprenditori, che sostenevano le ragioni di uno sviluppo economico liberistico, in continuità con il passato più recente, come unica garanzia di un futuro migliore.
I primi anni dell'Italia repubblicana furono infatti dominati da un'ideologia liberista che trovò il suo più autorevole portavoce in Luigi Einaudi (1874-1961), fermo oppositore del fascismo e nuovo governatore della Banca d'Italia, che nel 1947 diventò ministro del Bilancio e l'anno successivo fu eletto Presidente della repubblica. Uno dei principali effetti di questa politica liberista fu quello di una disoccupazione di massa, tre o quattro volte superiore (in percentuale sulla popolazione attiva) di quella di Francia e Gran Bretagna. Nel giro di pochi anni l'Italia tornò comunque ai livelli prebellici di produzione e consumo, riconfermando però il dualismo che aveva dominato il paese dopo l'unificazione: un Nord industriale e ricco, un Sud agricolo impoverito e incapace di superare le ristrettezze della sua condizione socioeconomica. La conflittualità sociale non si attenuò e anzi il numero di scioperi, di scioperanti e di ore di sciopero rimase uno dei più alti in tutta Europa.
Rientrato in Italia dal suo viaggio negli Stati Uniti del gennaio 1947, De Gasperi attuò un graduale distacco dai partiti della sinistra e si avviò a stringere un'alleanza stabile con i partiti laici minori: i repubblicani, i liberali e i socialdemocratici di Giuseppe Saragat, che proprio nel gennaio 1947 si scissero dal Partito socialista. Nacque così un diverso e stabile equilibrio politico, contrassegnato dai governi «centristi» a guida democristiana e dall'opposizione di monarchici e neofascisti (riuniti nel Movimento sociale italiano, fondato nel 1946 dai reduci della repubblica fascista di Salò) a destra e di Psi e Pci a sinistra. Sul piano economico i provvedimenti di restrizione del credito bancario per contrastare l'inflazione, attuati nell'agosto 1947 dal ministro del Bilancio Einaudi, dettero il senso di una coerente politica deflattiva, che mirava a stabilizzare la lira piuttosto che combattere la disoccupazione, in accordo con le posizioni liberistiche del ceto imprenditoriale.
Il primo maggio 1947 gli uomini del bandito mafioso Salvatore Giuliano spararono su un comizio di contadini a Portella della Ginestra, in Sicilia, provocando undici morti. Era la risposta ai risultati delle elezioni amministrative regionali siciliane, che avevano visto il successo del Blocco del popolo formato da Pci, Psi e Partito d'azione; ma fu anche il segnale più evidente di una nuova e crescente tensione del clima politico. Contro la prospettiva di una vittoria delle sinistre e quindi di uno spostamento dell'Italia nell'area di influenza sovietica, si andava costituendo un saldo blocco sociale, che andava dai ceti padronali compromessi con la dittatura di Mussolini fino alle componenti più moderate dello schieramento antifascista.
TogliattiLe elezioni che si tennero il 18 aprile 1948 furono così largamente dominate da una scelta di campo tra Est e Ovest. Il piano Marshall incarnava una visione del futuro fondata sull'espansione dei consumi privati, che il cinema di Hollywood era capace di diffondere nell'opinione pubblica con un'efficacia senza rivali. D'altra parte il sanguinoso colpo di stato che nel febbraio 1948 a Praga portò i comunisti alla conquista del potere assoluto, rompendo il precedente governo di coalizione, dette il segno di una drastica involuzione autoritaria imposta da Stalin in tutta l'Europa orientale. Nel dicembre 1947 il Papa Pio XII lanciò un appello («o con Cristo o contro Cristo») che schierò in campo anche il Vaticano. I Comitati civici cattolici si mobilitarono a sostegno della Dc, appoggiandosi alla rete capillare delle parrocchie. Mentre il governo degli Stati Uniti approntava segrete contromisure militari nell'eventualità di una vittoria elettorale delle sinistre. Pci e Psi si unirono in una lista comune (il Fronte democratico popolare) con l'obiettivo di sostituire De Gasperi alla guida del paese. I risultati delle elezioni rispecchiarono però la paura di un «salto oltre cortina», nella sfera di influenza sovietica: la Dc conseguì il suo massimo storico (48,5%) sfiorando la maggioranza assoluta, mentre il Fronte popolare (31%) peggiorò notevolmente le percentuali ottenute separatamente da socialisti e comunisti appena due anni prima. De Gasperi occupò nuovamente la carica di primo ministro, ribadendo la formula di governo centrista, fondata sull'alleanza tra Dc e partiti minori di centro (Partito liberale, Partito repubblicano, Partito socialdemocratico).
Dopo il 1948 l'Amministrazione ricompose gran parte dei propri equilibri interni. Nel gennaio 1950, 68 direttori generali erano a capo della Amministrazione dello Stato. Di questi 39 "apparivano già in posizione di spiccata responsabilità nel 1942" dei rimanenti 29 "alcuni avevano ricoperto ruoli istituzionali nel 1941-42. "Il dicastero dove più forte appariva l'impronta del passato era la Pubblica Istruzione" 7 su 8 direzioni generali "erano appannaggio di ex collaboratori del ministro fascista Bottai. "L'impianto tradizionale delle Direzioni generali e delle Divisioni resistette a tutti i tentativi di riforma. La rivoluzione economica del dopoguerra sarebbe avvenuta,con i suoi effetti sociali dirompenti, ma in assenza e spesso contro l'amministrazione dello Stato" (G.Melis docente di storia dell'Amministrazione pubblica alla Luiss. Intervento al convegno "Le origini della Repubblica e il processo costituente" organizzato dalla Camera dei Deputati il 30-31 maggio 2006 )
Sconfitta nelle urne, l'opposizione di sinistra cercò di riguadagnare terreno sul piano sociale attraverso un'intensa mobilitazione a difesa delle condizioni di vita e di lavoro delle masse popolari. Il grado di esasperazione raggiunto dalla contrapposizione tra i due schieramenti risaltò in tutta la sua drammatica evidenza il 14 luglio 1948, quando un attentatore isolato ferì gravemente Togliatti. Al diffondersi della notizia milioni di lavoratori scesero in sciopero in tutta Italia, convinti che si trattasse del primo atto di un colpo di stato promosso dalle forze reazionarie. Il paese sembrò precipitare di nuovo nella guerra civile, ma il buon senso dei dirigenti comunisti e socialisti riuscì a ricondurre i manifestanti alla calma. L'unica conseguenza immediata della rivolta fu la scissione della Cgil, da cui si staccò la corrente cattolica che prese a pretesto lo sciopero politico indetto dalla maggioranza socialcomunista per attuare una separazione già preparata da tempo -anche dietro le pressioni e gli aiuti di parte statunitense- favorevoli alla costituzione di un sindacato anticomunista e più collaborativo con il governo e le associazioni padronali. Venne così fondata la Libera Cgil, che due anni dopo si trasformò in Confederazione italiana sindacati lavoratori (Cisl); da essa a sua volta si divise nel 1950 l'Unione italiana del lavoro (Uil), espressione delle correnti socialdemocratica e repubblicana.
Non per questo il clima migliorò. Tra il 1948 e il 1950 vennero condannati più di 15 mila oppositori a un totale di 7.598 anni di carcere. Per avere un termine di raffronto basti pensare che tra il 1927 e il 1943 il Tribunale speciale aveva comminato 4.596 condanne per un totale di 27.735 anni di carcere. Nel periodo 1948-1952 in Italia i morti ad opera delle forze dell'ordine nel corso di manifestazioni di piazza furono 65, contro i 3 della Francia, i 6 della Gran Bretagna, i 6 della Germania. La «Celere» (il corpo di polizia responsabile dell'ordine pubblico) agli ordini del ministro dell'Interno Mario Scelba divenne tristemente famosa. A dispetto di ogni retorica sugli «italiani poveri ma belli», per una parte non piccola della memoria collettiva nazionale gli anni cinquanta furono «anni bui». A consolidare nel tempo questa immagine, un contributo determinante venne dato dalla realtà delle relazioni industriali nelle grandi fabbriche del nord, di cui la Fiat fu, come sempre, caso emblematico: schedature politiche, reparti-confino, licenziamenti, composero il quadro di una vera e propria opera di persecuzione ai danni degli operai comunisti e socialisti. Secondo una legge approvata nel 1974 dal parlamento italiano sono stati riconosciuti come «perseguitati politici» nel nostro paese, tra il gennaio 1948 e l'agosto 1966, 12.981 lavoratori e 2.078 lavoratrici.

2- L'Italia 1949-68: da paese ad economia agricola a paese industriale

Per contrastare questa deriva la Cgil, guidata da Giuseppe Di Vittorio, lanciò nel 1949-50 un «Piano del lavoro», attorno al quale mobilitò rappresentanze popolari e di fabbrica, economisti e intellettuali. L'obiettivo era di imporre al governo e alla classe dirigente una serie di iniziative economiche pianificate (soprattutto opere pubbliche) che garantissero l'espansione dell'occupazione.
Di VittorioLa risposta del governo e della Confindustria (l'associazione degli imprenditori) fu negativa, ma dietro di essa andavano maturando cambiamenti considerevoli. Il più importante fu rappresentato dalla riforma agraria elaborata nel 1950 dal ministro Antonio Segni, che prevedeva la distribuzione di terre e la creazione di una vasta area di piccola proprietà contadina, a favore della quale furono varate consistenti misure di sostegno creditizio. La riforma ebbe un'attuazione limitata ma servì al duplice scopo di togliere nerbo e vigore alle lotte per la terra nel meridione e di dare uno scossone decisivo al ceto dei proprietari terrieri meridionali. Il potere politico e sociale di questi «notabili», che aveva dominato il Mezzogiorno dall'Unità alla fine del fascismo, venne gradualmente sostituito da un nuovo potere: quello dell'esponente locale del partito di governo, in grado di erogare le risorse provenienti dal potere centrale (terra e soldi) in cambio di un appoggio clientelare in termini di voti e consenso.
A porre le basi per questo nuovo potere di «sottogoverno» concorsero componenti del partito di governo che non si identificavano con la leadership degasperiana: in particolare la sinistra democristiana, sensibile alle necessità sociali e ostile a un liberismo puro. Gli atti promossi da questo gruppo riguardarono in particolare i piani per le opere pubbliche dei comuni e per l'edilizia popolare (che portarono i nomi rispettivamente dei ministri Umberto Tupini e Amintore Fanfani) e l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno nel 1950. A quest'ultima fu affidato il compito di finanziare gli interventi necessari per dotare il Mezzogiorno di tutte le infrastrutture (vie di comunicazione, acquedotti, elettrificazione) occorrenti per l'impianto di imprese produttive agricole, industriali e commerciali. La gestione del flusso di risorse destinate a finanziare questi interventi fu rapidamente sottratta al controllo del parlamento e contribuì a creare una base di consenso attorno al ceto di governo, che nei decenni seguenti scivolò sempre più palesemente verso forme di clientelismo e corruzione.
La riforma agraria mise in crisi i rapporti tra la Democrazia cristiana e i grandi proprietari terrieri. Si aprì allora uno spazio all'iniziativa dei partiti di destra che riscossero significativi successi alle elezioni amministrative del 1951-52. Per il maggior partito di governo si profilò allora un crescente pericolo, dato che anche in Vaticano si veniva profilando un'opposizione di destra al laicismo e alle politiche sociali della Dc. Il capo dell'esecutivo decise di reagire sul piano della riforma della legge elettorale, allo scopo di «blindare» con solide maggioranze parlamentari la formula centrista di governo. Nonostante l'aspra opposizione delle sinistre (che bollarono questo provvedimento come «legge-truffa») nel gennaio 1953 il parlamento approvò una legge che assegnava un consistente «premio» in seggi - fino a portarlo oltre la soglia della maggioranza qualificata dei due terzi dei seggi, necessaria per modificare la Costituzione - allo schieramento che avesse conseguito la maggioranza assoluta dei voti.
Le elezioni del giugno 1953 segnarono però la sconfitta del disegno di De Gasperi perché per meno di 60 mila voti l'apparentamento dei partiti di centro non riuscì a conquistare il 50% dei voti. Decisive in questo risultato furono alcune piccole formazioni di centro-sinistra, come Unità Popolare guidato da Parri che ottenne 200 mila voti, molti dei quali strappati ai partiti di centro. La Dc perse molti consensi a favore dei partiti di destra, mentre Psi e Pci migliorarono le loro posizioni rispetto al 1948. La seconda legislatura si aprì quindi nel segno dell'incertezza: di fatto il disegno degasperiano di un «centrismo blindato» era fallito, senza che nessuna alternativa apparisse all'orizzonte. Il rafforzamento dei partiti di sinistra rendeva fragile e pericolosa un'alleanza tra Dc e destre, mentre gli equilibri internazionali resi ancora più esasperati dalla guerra di Corea (1950-1953) impedivano qualsiasi apertura a sinistra. Nel 1954 la morte di De Gasperi coincise con l'affermazione nella Dc della nuova segreteria di Amintore Fanfani, uomo chiave nel processo di Fanfani rafforzamento del partito attraverso la leva degli enti pubblici e l'azione di governo sul terreno della politica economica. La costituzione nel 1952 dell'Ente nazionale idrocarburi (Eni), azienda statale finalizzata allo sfruttamento del petrolio e del gas naturale, esemplificò questo processo di crescita di un nuovo capitalismo capace di muoversi in modo competitivo sul libero mercato e, nello stesso tempo, saldamente legato alle istituzioni e ai partiti di governo.
Era il modo scelto dalla classe di governo per stare al passo con il mutamento della base economica. Nella seconda parte degli anni cinquanta, infatti, mentre gli equilibri politici erano congelati, la struttura produttiva del paese avviò un profondo processo che ne avviò il cambiamento da paese agricolo e semi-povero a paese ad economia industriale. Il reddito pro-capite degli italiani indicato dal censimento del 1951, era di lire 220.000 - equivalenti ad un potere d'acquisto di lire 4.250.746 calcolato sul costo della vita nel 1991-. Il censimento del 1971 evidenziava un reddito pro-capite di 11.334.000, sempre in termine di potere d'acquisto del 1991. In vent'anni il reddito era quasi triplicato. Tra il 1951 e il 1961 gli addetti all'agricoltura calarono dal 42% al 29% della forza lavoro, gli addetti all'industria e ai servizi crebbero di due milioni di unità: l'Italia entrava in una fase di accelerata modernizzazione della sua base economica e per la prima volta il settore industriale conquistava la maggioranza relativa della popolazione attiva. Ma questo aumento vistoso non fu sufficiente a compensare la perdita di posti di lavoro in agricoltura che nello stesso periodo ammontò a 2 milioni e mezzo di unità. Anche se impetuoso, il processo di industrializzazione rimase inizialmente concentrato nel cosiddetto «triangolo industriale» Torino-Milano-Genova, senza toccare in profondità il Mezzogiorno e senza riuscire a cancellare una cronica penuria di lavoro.
Il carattere geograficamente ristretto di questa espansione industriale settentrionale innescò un gigantesco moto migratorio dal sud rurale verso le grandi metropoli del nord, che tra il 1955 e il 1970 coinvolse circa tre milioni di persone, con punte massime nel periodo 1958-63. Questa grande migrazione ebbe effetti dirompenti sui tessuti familiari e culturali del Mezzogiorno e segnò l'avvio di uno spopolamento delle aree meridionali, in particolare di quelle agricole e montane. Quasi sempre a partire erano proprio le persone che per cultura e inclinazioni personali erano più intraprendenti e più impegnate sul terreno civile e sociale: alla divisione delle famiglie (spesso donne, anziani e bambini rimanevano a casa) si aggiungeva l'impoverimento della società locale. Sui territori di destinazione questo moto migratorio si abbatté con forza: richiamati dalla possibilità del lavoro, gli immigrati affrontavano condizioni tremende di disagio, emarginazione e povertà. Intere città, come Torino, ne furono profondamente trasformate. Crebbero quartieri-dormitorio popolati da immigrati meridionali, con forti problemi di integrazione sociale con la popolazione residente. In Italia centrale la mezzadria (il patto agrario che da secoli regolava la vita della campagne, fondato sulla spartizione a metà dei proventi tra padrone e conduttore del podere) entrò in crisi: le giovani generazioni abbandonarono la campagna per andare in città e trovare nuovi impieghi nel commercio e nella piccola industria. Ma, a differenza del nord, questo spostamento di popolazione non produsse la congestione urbana tipica delle metropoli del nord e anzi si diffuse sul territorio dando vita a una «campagna urbanizzata» che col tempo si rivelerà un prerequisito determinante per la nascita di nuovi distretti industriali, contraddistinti dalla presenza diffusa di piccole fabbriche.
Si verificò allora una grande mutazione. Tradizioni, credenze, riti e costumi del mondo contadino si avviarono verso una sostanziale scomparsa, gradualmente ma inesorabilmente sostituiti da comportamenti e abitudini del mondo cittadino, industriale, moderno, «americano». Medium determinante di questa mutazione fu la televisione (inaugurata nel 1954): attraverso di essa la lingua italiana si affermò definitivamente nell'uso, soppiantando o affiancandosi ai dialetti parlati. Nacquero nuovi miti, come quello di Mike Bongiorno e del suo programma di quiz Lascia o raddoppia, fedelmente copiato dalla tv americana. Ma soprattutto attraverso la televisione tutti i ceti sociali furono influenzati da un processo di secolarizzazione: si ridimensionò il peso della religione nei comportamenti quotidiani, a tutto vantaggio di costumi, modi di pensare e rapporti umani e sociali più moderni, aperti e liberi, variamente influenzati dai miti del cinema e dalla pubblicità commerciale. Nuovi status-symbol (lo scooter, l'automobile, il frigorifero, la lavatrice) si affermarono nell'uso comune e per la prima volta, come del resto accadeva in tutto il mondo occidentale, i giovani costituirono un segmento di mercato con gusti, mode e consumi culturali (la «musica leggera» e il rock'n roll diffusi da una industria discografica in fase di grande espansione) diversi da quelli degli anziani. La donna divenne target («bersaglio») specifico della pubblicità radiofonica e televisiva, favorendo una sua crescente autonomia sul piano dei consumi e delle esigenze.
Il «boom» o «miracolo economico» (come allora venne chiamato) dell'Italia coincise con una fase di distensione sul piano internazionale. La morte di Stalin nel 1953 e l'ascesa al potere di Chruščëv sembrarono favorire l'allentamento delle contrapposizioni più rigide e il pur contraddittorio avvio di una nuova stagione, che venne chiamata del «disgelo», dal titolo di un romanzo dello scrittore russo Il'ja Erenburg pubblicato nel 1954. La denuncia dei crimini di Stalin da parte di Chruščëv e l'invasione sovietica dell'Ungheria determinarono una rottura nei rapporti tra il Psi (che denunciò l'azione militare dell'Urss) e il Pci (che invece ribadì il proprio «legame di ferro» con Mosca). La fine dell'unità tra socialisti e comunisti aprì nuove prospettive nella politica italiana. Si cominciò allora a parlare di «apertura a sinistra», intendendo con ciò la possibilità di una collaborazione governativa tra Dc e Psi. A spingere in tale direzione era anche la maggiore disponibilità al dialogo che si venne manifestando all'interno del mondo cattolico, dove la morte di Papa Pio XII nel 1958 contribuì a mettere in discussione le più aspre rigidezze dottrinali che avevano contraddistinto il suo pontificato (a partire dalla scomunica che nel 1949 aveva colpito i comunisti).
Papa Giovanni XXIIIA soli tre mesi di distanza dalla nomina, il nuovo pontefice Giovanni XXIII annunciò la convocazione di un concilio (il Vaticano II, inaugurato nel 1962) e con gradualità affermò un nuovo concetto di Chiesa, maggiormente collegiale e più aperto alle altre confessioni religiose e al mondo laico. Scritta da Papa Giovanni pochi mesi prima della sua morte (avvenuta nel giugno 1963), l'enciclica Pacem in terris testimoniò l'impegno della Santa Sede a favore della pace nel mondo attraverso il superamento della guerra fredda. Contemporaneamente l'elezione del democratico John Kennedy alla presidenza degli Stati Uniti nel 1960 allentò progressivamente la tradizionale intransigenza statunitense nei confronti di ogni spostamento a sinistra della politica italiana. Le modificazioni del quadro internazionale, insomma, sembravano convergere nel determinare nuovi vincoli e nuove opportunità per la politica italiana.
Anche sul terreno più propriamente economico le maggiori spinte innovative vennero dall'estero. La firma dei trattati di Roma nel 1957 e il varo del Mercato comune europeo rafforzarono le pressioni per una maggiore programmazione pubblica della ripresa produttiva. Ne derivò una espansione del settore delle industrie di stato, che già nel 1956 era stato centralizzato in un apposito ministero delle Partecipazioni statali.
J.F. KennedyFino ad allora le scelte liberiste di piena integrazione dell'Italia nei mercati internazionali avevano dato impulso allo sviluppo competitivo dell'industria privata esportatrice, che risultava favorita rispetto ai paesi esteri da più ampie disponibilità di forza lavoro a basso costo. Adesso invece l'Eni di Enrico Mattei - destinato a morire nel 1962 in un oscuro incidente aereo - perseguiva una politica di autonomia dal potere delle «sette sorelle» (come venivano chiamate le maggiori compagnie petrolifere angloamericane) attraverso rapporti più favorevoli con i paesi arabi produttori.
Nel 1960 il partito liberale uscì dalla maggioranza di governo per costringere la Dc a una resa di conti interna che bloccasse una volta per tutte la prospettiva del centrosinistra. Il governo «monocolore» Dc che ne seguì era guidato da un esponente democristiano di secondo piano, Fernando Tambroni, che non esitò ad accettare i voti dell'estrema destra, formata da monarchici e missini. Ciò suscitò una risposta popolare che nel luglio 1960 si espresse in violente manifestazioni di piazza, a cui il governo oppose una repressione sanguinosa non molto diversa da quella degli anni cinquanta. Nove dimostranti caddero sotto il fuoco della polizia (a Reggio Emilia, Palermo e Catania) mentre protestavano contro la legittimazione governativa delle forze politiche più legate al passato regime fascista. Si aprì allora una crisi assai grave che si concluse con la secca sconfitta delle destre. MoroTambroni si dimise e il nuovo governo venne guidato da Fanfani con l'astensione dei monarchici e del Psi: il segretario della Dc Aldo Moro lo definì come il governo delle «convergenze parallele», oscuro ossimoro che voleva significare il cauto e guardingo spostamento verso sinistra del partito di maggioranza relativa. D'altra parte, ormai anche il Vaticano e Washington sembravano propensi ad accettare la prospettiva del centrosinistra come l'unica in grado di sbloccare senza avventure pericolose un quadro politico da troppo tempo congelato. Con estrema lentezza la situazione evolse in quella direzione. Nel 1962 si formò un nuovo governo presieduto da Fanfani con l'opposizione della destra e del Pci, ma di nuovo con l'astensione del Psi. L'anno successivo i socialisti entrarono direttamente nel governo formato da Moro.
L'avvio dei governi di centrosinistra non avvenne all'insegna di un entusiastico consenso popolare. Alle elezioni politiche del 1963 la Dc perse il 4% dei voti e il Psi ottenne un aumento minimo (0,4%) mentre gli avversari dell'esperimento governativo - comunisti a sinistra e liberali a destra - furono premiati dall'elettorato. Nondimeno, i nuovi governi si proposero di promuovere un accelerato processo di modernizzazione, che si concretò nella nazionalizzazione della produzione di energia elettrica e nella riforma della scuola media. Realizzata nel 1962, la nazionalizzazione dell'energia elettrica avvenne attraverso la costituzione di un nuovo ente statale apposito (Enel, Ente nazionale per l'energia elettrica) ma l'indennizzo, invece di andare alle migliaia di azionisti delle società espropriate, fu corrisposto ai vertici delle aziende elettriche private. Il risultato fu che buona parte di questi capitali venne utilizzato in operazioni finanziarie e borsistiche, con scarse ricadute positive in termini di investimenti produttivi e di ampliamento della base imprenditoriale. Nonostante i grandi cambiamenti provocati dal «miracolo economico», il capitalismo italiano rimaneva un capitalismo legato a poche grandi famiglie e ai loro rapporti privilegiati con il potere politico. Il partito socialista che partecipava al governo con l'ambizione di entrare nella «stanza dei bottoni», da cui dirigere attraverso la «programmazione» uno sviluppo più armonioso ed egualitario della società, dovette ben presto ricredersi. Pochi mesi prima di realizzare la nazionalizzazione dell'energia elettrica, nel maggio 1962 il repubblicano Ugo La Malfa, ministro del Bilancio, allegò al programma del governo una «Nota aggiuntiva» centrata sullo sviluppo industriale del Mezzogiorno e la priorità assegnata ai consumi collettivi (servizi sociali, trasporti pubblici, scuola e sanità). Ma di fatto quel documento rimase lettera morta, vanificato dalle resistenze e dall'ostruzionismo passivo che gli venne opposto dai poteri forti dell'economia e della finanza attraverso i loro rappresentanti in governo e in parlamento.
La scuola media unica, istituita nel 1962, cancellava la discriminazione sociale precoce che fin allora aveva avviato al lavoro i ragazzi più poveri (senza concedere loro alcuna opportunità di ascesa sociale) e portò a 14 anni la frequenza obbligatoria. La riforma lasciò inalterati molti mali antichi della scuola italiana: gli aspetti autoritari e tradizionalisti della linea didattica, la selezione che comunque continuava a colpire i bambini e i giovani delle classi popolari meno ricche e meno acculturate. (Singolarmente i programmi relativi alla nuova scuola media verranno emanati nel 1979,17 anni dopo la sua istituzione). Ma la riforma significò anche una scelta a favore della scolarizzazione di massa, ormai indispensabile in un quadro, come quello italiano, di accelerata crescita dei quadri impiegatizi, del settore terziario dei servizi e di forte innovazione tecnologica del settore industriale con l'impiego di macchinari sempre più sofisticati. Erano tutti processi che richiedevano una forza lavoro più acculturata e specializzata, cioè più qualificata attraverso una formazione di base più rispondente alle nuove necessità del mondo professionale. Anche la scuola doveva mutare al passo con l'economia e la società.
L'avvio del centrosinistra determinò un intenso travaglio nell'opposizione. Gli obiettivi riformatori della maggioranza del Psi spinsero una minoranza del partito, che non li condivideva, a dar vita a una nuova formazione - il Partito socialista italiano di unità proletaria (Psiup) - che richiedeva più incisivi interventi politici e sociali. All'interno del Partito comunista, Giorgio Amendola (1907-1980) sostenne la necessità di un appoggio più stretto al Psi e al suo impegno riformatore dentro il governo, senza tuttavia trovare molto consenso tra i suoi compagni. La morte di Togliatti nel 1964, tuttavia, segnò la chiusura di un ciclo della storia del partito, che egli stesso siglò con un famoso memoriale (il Memoriale di Yalta, la località della Crimea in cui si trovava quando morì). Pur senza rinnegare la superiorità del sistema sovietico, Togliatti prospettava un «policentrismo» del movimento operaio internazionale che tenesse conto dell'emergere di molte vie nazionali al socialismo, non necessariamente uguali a quella percorsa in Urss. La via italiana al socialismo, in particolare, doveva cercare un raccordo organico tra democrazia e socialismo fondato sul pluralismo dei partiti e il rispetto della maggioranza parlamentare.
Verso la metà del decennio, tuttavia, la spinta riformatrice dei governi di centrosinistra sembrò indebolirsi. Il miracolo economico si esaurì e la situazione economica mondiale entrò in una fase di rallentamento, che in Italia ridusse le risorse necessarie a continuare sulla strada delle riforme. Erano gli anni della «congiuntura». Gli impegni di grande importanza annunciati dai governi presieduti da Moro negli anni 1964-1966 (l'attuazione delle regioni, la programmazione economica, la regolamentazione dell'uso dei suoli ai fini dello sviluppo urbanistico e dell'edilizia privata) non ebbero mai concreta attuazione e furono vanificati dall'opposizione di un fronte conservatore sempre più forte. Molte città, soprattutto nel meridione, crebbero in modo incontrollato, senza piani regolatori, dando ampio spazio alla criminalità mafiosa, cementificando intere zone del paese senza riguardo per gli equilibri ambientali e la salvaguardia di uno dei paesaggi più belli del mondo.
Ad opporsi all'attuazione delle riforme erano anche forze illegali e sotterranee. Un esempio eclatante fu rappresentato dal cosiddetto «piano Solo», elaborato nel 1964 dal comandante dell'Arma dei carabinieri generale Giovanni De Lorenzo, che prevedeva, in caso di disordini, un intervento diretto dell'Arma e solo di essa (di qui il nome) per l'arresto degli oppositori e l'occupazione delle prefetture e di altri centri nevralgici dello stato. Al di là della sua effettiva praticabilità, anche solo l'esistenza di tale piano - accertata nel 1968 da una commissione parlamentare d'inchiesta - contribuì a intimidire le forze riformatrici e a indurle ad accettare compromessi e ritardi sulla strada della modernizzazione. Peraltro il «piano Solo» mise in luce una perdurante debolezza della democrazia italiana, già emersa nel 1948 e determinata dalla disponibilità vera o presunta di alcuni settori dello stato ad agire al di fuori della legalità allo scopo di perseguire particolari obiettivi politici: una circostanza che è poi rimasta, in varie forme, una costante della storia d'Italia, agendo da strumento di ricatto e delegittimazione reciproca delle forze politiche. E' esemplificativo il convegno organizzato dall'Istituto Pollio -privato ma vicino allo Stato Maggiore dell'Esercito- il 3-5 maggio 1965 a Roma ,hotel Parco dei Principi, sul tema "la guerra rivoluzionaria". L'obiettivo era di contrastare la presa del potere da parte dei comunisti. Giorgio Pisanò, Giano Accame, Guido Giannettini, Pino Rauti effettuarono interventi;Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino erano tra i partecipanti. L'incontro evidenzia la vicinanza del pensiero strategico della destra radicale e delle alte gerarchie militari.
A metà degli anni sessanta anche in Italia la baby boom generation, figlia del miracolo economico e del processo di crescita vissuto dal paese, si affacciò alla ribalta. Giovani operai, emigrati dal sud e dalle campagne mai integratisi appieno nelle strutture delle grandi fabbriche del nord, studenti nati all'indomani della guerra che affollarono università costruite per una formazione d'élite: un'intera generazione, che l'ombra della bomba atomica aveva spinto alla diffidenza nei confronti dell'Occidente e del suo modello di sviluppo, si scontrò con le strutture arcaiche e inadeguate di un'Italia cresciuta senza rinnovarsi.

3- L'Italia 1968-79: la stagione dei diritti e gli anni di piombo

Come accadde in larga parte del mondo, in Italia le ostilità furono aperte dalle lotte studentesche. A partire dalle università (Torino, Milano, Roma e Trento furono i centri più vivaci) gli studenti avviarono nella primavera del 1968 una serrata contestazione del sistema scolastico, dei caratteri selettivi e meritocratici a cui si ispirava, della cultura astratta predominante nelle università. La spinta materiale dei bisogni insoddisfatti da una scuola inadeguata ad accogliere un afflusso di massa si unì a ideali libertari e a speranze rivoluzionarie, vissuti come alternativa di vita al «sistema». Una peculiarità della situazione italiana rispetto al resto del mondo fu che sulle lotte studentesche si inserì una ulteriore fase di lotte operaie: il cosiddetto «autunno caldo» del 1969. In effetti gli anni dal 1968 al 1974 videro un rilancio della conflittualità operaia (testimoniata dall'aumento del numero di scioperi) in tutta l'Europa occidentale. Ma in Italia essa assunse la forma di una contestazione che non si poneva solo obiettivi salariali e normativi e avanzava invece richieste più vaste: una riforma dal basso del sindacato attraverso nuove strutture elettive (i consigli di fabbrica) formate da delegati di reparto eletti dai compagni di lavoro anziché da funzionari sindacali, un monte-ore retribuito (le cosiddette «150 ore») da destinare allo studio e alla formazione, il rifiuto di ambienti di lavoro e mansioni lavorative che fossero nocivi per la salute.
Contrariamente a un diffuso senso comune, il Sessantotto trasformò radicalmente la società italiana, approfondendo il processo di secolarizzazione e modernizzazione avviato dieci anni prima dal miracolo economico. Si confermava così un tratto di lungo periodo della storia d'Italia: l'influsso determinante esercitato da spinte esterne e internazionali per provocare blocchi o avanzamenti della situazione interna. Nel 1969 il sistema delle pensioni fu allargato e incrementato; le leggi a tutela della maternità vennero ulteriormente migliorate; il divorzio venne introdotto con una legge dello stato. L'accesso all'Università fu liberalizzato in termini sperimentali. Non più consentito solo ai possessori del diploma del liceo classico e scientifico, ma a chiunque avesse terminato le scuole superiori. Singolarmente la sperimentazione si protrasse per 28 anni senza che, né le scuole superiori né l'università, venissero adeguate, in qualche modo, all' innovazione introdotta. Nel 1970 si costituirono le regioni con proprie giunte di governo e proprie assemblee elettive; l'approvazione dello Statuto dei lavoratori garantì una vita più democratica all'interno delle fabbriche, impedì i licenziamenti arbitrari e diede legittimità ai rappresentanti dei lavoratori eletti nei consigli di fabbrica. Nel 1971 il sistema fiscale fu riformato con l'introduzione di una imposta sul reddito delle persone fisiche (Irpef), ispirata a criteri di progressività (cioè di crescita proporzionale delle aliquote di prelievo in funzione dell'aumentare dei redditi) e finalizzata alla creazione di un'anagrafe tributaria nazionale permanente. Il censimento di quell'anno indicava che la popolazione attiva italiana era addetta per il 17,2% all'agricoltura, per il 38,5 al terziario e per il 44,3 all'industria. Nel 1974 si posero le basi del Servizio sanitario nazionale, secondo criteri di universalità e gratuità che rompevano con la tradizione particolaristica e corporativa delle casse mutue frammentate per categorie lavorative. Si trattò in effetti di uno dei più ampi cicli riformatori della storia italiana, che sopraggiungeva dopo la stagione di ritardi e delusioni del centrosinistra. Nel 1974 il referendum sulla legge istitutiva del divorzio, voluto dalle organizzazioni cattoliche intenzionate a cancellare la legge -fortemente appoggiato dalla Dc- fu vinto con il 59% dei voti dagli oppositori dell'abrogazione della legge.Questo risultato dimostrò che il paese si era ormai incamminato irreversibilmente sulla strada della secolarizzazione.
Questa fase di aperture venne tuttavia segnata da laceranti conflitti. Sul piano internazionale nel 1971 il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon - pressato da una dispendiosa e ormai disperata guerra del Vietnam - pose fine alla convertibilità del dollaro in oro e con essa al modello di cooperazione internazionale del venticinquennio precedente. Due anni più tardi la guerra del Kippur scatenata da Egitto e Siria contro Israele quadruplicò in poche settimane il prezzo del petrolio e trasmise rapidamente al resto dell'economia mondiale un effetto di «stagflazione» cioè di stagnazione produttiva unita ad inflazione dei prezzi. In Italia l'inflazione salì a livelli abnormi, fino a raggiungere percentuali annue superiori al 10%. Si innescò così una nuova fase di conflitti sociali che si prolungò per tutti gli anni settanta. Una pesante atmosfera di scontro tra i movimenti di massa e le forze dell'ordine avvelenò il clima di molte città italiane. L'uso della violenza diventò nel giro di pochi anni una caratteristica della lotta politica nelle piazze e a essa si aggiunse lo scatenarsi del terrorismo. Nel dicembre 1969 una bomba alla Banca nazionale dell'Agricoltura di Milano provocò sedici morti: la polizia seguì immediatamente la pista anarchica arrestando dei presunti colpevoli che le inchieste giudiziarie successive riabilitarono come completamente estranei ai fatti. In realtà, le inchieste evidenziarono che la bomba del dicembre 1969 inaugurò una stagione di «stragismo», diretta e organizzata da organizzazioni neofasciste in collaborazione con settori dei servizi segreti dello stato e delle forze armate. Loro scopo era quello di creare un clima di allarme e tensione sociale per imporre un brusco spostamento a destra degli equilibri politici: dopo il colpo di stato dei colonnelli greci nel 1967 tutto il fronte mediterraneo della Nato - da Lisbona ad Ankara - era governato da dittature militari, tranne l'Italia.
A questa collusione tra neofascisti e servizi segreti deviati sono riconducibili anche le stragi che negli anni successivi segnarono la storia d'Italia colpendo a caso e senza discriminazione cittadini, spesso del tutto estranei ad attività politicamente significative: la bomba di piazza della Loggia a Brescia nel 1974 durante un comizio sindacale, quella sul treno Italicus nello stesso anno, quella alla stazione di Bologna nel 1980 che uccise ottantacinque persone, quella sul rapido Roma-Milano nel 1984. Si parlò allora di «strategia della tensione» per indicare una regia occulta - peraltro mai provata definitivamente - di questa catena di morte, volta a creare le condizioni di terrore per una fuoruscita autoritaria dal sistema democratico parlamentare. Ma le istruttorie giudiziarie condotte su questi attentati hanno spesso mostrato il coinvolgimento diretto (o indiretto, nell'azione di «depistaggio» delle indagini) dei servizi segreti dello stato o di parti di essi, secondo una consuetudine inaugurata dal piano Solo del 1964.
Come un drammatico pendolo di sangue la «strategia della tensione» del terrorismo di destra suscitò la reazione del terrorismo di sinistra. È inesatto individuare nella strage di Piazza Fontana il momento originario di una perdita dell'innocenza - come alcuni reduci del Sessantotto continuano a sostenere - perché la violenza aveva fatto la sua comparsa nel movimento studentesco almeno fino dal tempo degli scontri di Valle Giulia, a Roma, del marzo 1968 (con 600 feriti tra dimostranti e poliziotti). Ma una netta linea di demarcazione separa quel tipo di violenza, strutturalmente connessa a una dimensione di massa, dalla violenza terroristica premeditata e clandestina di piccoli gruppi organizzati. Nel marzo 1972 il sequestro per poche ore di un dirigente aziendale segnò l'atto di nascita di questo terrorismo di sinistra che nel maggio successivo uccise il comissario di polizia Luigi Calabresi. Al regolamento di conti con «nemici» individuati (poliziotti, magistrati ma anche operai «che fanno la spia» come Guido Rossa) si affiancarono azioni dimostrative contro individui simbolo del potere economico o politico.
Insieme alla Germania l'Italia è l'unico paese europeo dove il Sessantotto prelude alla lunga scia di sangue degli «anni di piombo»: secondo stime ufficiali elaborate sulla base di dati del Ministero dell'Interno tra 1969 e 1987 si contarono più di 400 vittime del terrorismo, più di mille feriti in quasi 15 mila atti di violenza «politicamente motivati» contro persone e cose. Tra 1969 e 1984 morirono circa 150 persone in stragi perpetrate dal terrorismo di destra (di cui 85 alla stazione di Bologna nel 1980) e altre 150 in agguati mirati prevalentemente ad opera di terroristi di sinistra. Nel 1978 l'uccisione degli uomini della scorta, il rapimento e poi l'esecuzione del leader della Dc.
Aldo Moro, segnarono lo spartiacque: il gruppo terroristico delle Brigate Rosse conobbe il suo momento di massima notorietà ma anche l'inanità del proprio progetto politico. Oltre un certo limite (circoscrivibile a qualche migliaio di individui) il terrorismo di sinistra non riuscì a fare proseliti; sia pure con sbandamenti - si diffuse all'epoca in alcuni ambienti intellettuali lo slogan «né con lo stato né con le Brigate Rosse» - l'opinione pubblica reagì con indifferenza alla prospettiva di uno scontro rivoluzionario; il fronte della fermezza opposto dai partiti e dalle istituzioni riuscì tutto sommato a tenere; attraverso il meccanismo dei «pentiti» (terroristi catturati e convinti a collaborare) l'azione di polizia diretta dal generale dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa assestò gravi colpi alle organizzazioni terroristiche.
Anche il movimento di fondo della società italiana negli anni settanta sembrò seguire un andamento pendolare. Nella prima fase si dispiegò un ciclo di intensa politicizzazione di massa - forse il secondo nella storia della Repubblica dopo quello del 1948 - che contraddice la tradizionale passività ed estraneità alla sfera pubblica delle grandi masse. Donne, studenti, operai ne erano i protagonisti. Tra le elezioni amministrative del 1975 e quelle politiche del 1976 le sinistre ottennero il successo elettorale più consistente di tutta la loro storia. Nel 1976 votavano per la prima volta i diciottenni - altro effetto «a distanza» del Sessantotto - e il Pci incrementò di un terzo i propri voti in cifra assoluta (+3,6 milioni): un'avanzata equamente ripartita per tutta la penisola senza grandi differenze nelle varie province d'Italia, che lo portò dal 27,1% al 34,4%. Anche la Dc avanzò (+1,3 milioni) pur restando ferma in percentuale al 38,8%, ma in maniera più circoscritta (soprattutto in Emilia, Toscana, Sicilia). Cogliendo un senso comune diffuso, il giornalista Indro Montanelli invitò a votarla «turandosi il naso» in omaggio a un riflesso d'ordine conservatore e anticomunista, ormai privo dell'ambizione di un progetto riformatore.
Quello del 1976 risultava così un voto paradossale: dopo quello del 1948 è il più bipolare dell'intera storia della Repubblica (Dc e Pci coprono più del 70% dei suffragi). Il leader comunista Berlinguer legò il successo del suo partito alla strategia del «compromesso storico», cui fino dal 1973 (all'indomani del golpe cileno del generale Pinochet) aveva conquistato la larga maggioranza del gruppo dirigente e della base degli iscritti. Si trattava di una strategia moderata, ispirata dai vincoli della guerra fredda e dall'impossibilità di un'alternanza al governo in Italia: un ipotetico governo delle sinistre a maggioranza risicata avrebbe modificato in modo insopportabile l'equilibrio tra i blocchi in un'area cruciale come quella mediterranea e sarebbe andato incontro agli stessi pericoli del governo di Allende in Cile. L'idea era quella di un ritorno alle origini: a un governo di solidarietà nazionale tra comunisti, socialisti e cattolici, non dissimile dalle coalizioni che ressero l'Italia fino al 1947 e che, approfittando della presenza della Santa Sede, guadagnasse una sorta di extraterritorialità del paese rispetto alla ferrea logica bipolare dei blocchi contrapposti. È evidente che dietro a questa idea stavano sia la percezione delle trame oscure che mettevano a repentaglio la natura democratica delle istituzioni, sia la fiducia nella presenza in seno alla Dc di interlocutori autorevoli e sensibili alla proposta (Aldo Moro in primis).
Eppure - ecco il paradosso - alle elezioni amministrative dell'anno precedente il Pci prese voti in base, non solo e non tanto a questo disegno strategico moderato, bensì a un'immagine di buongoverno onesto ed efficiente, seccamente alternativa rispetto alla Dc. Per buona parte degli elettori comunisti a metà degli anni settanta la prospettiva, che dal piano delle amministrazioni locali passava al quadro politico nazionale, non era quella di una nuova alleanza tra democristiani, socialisti e comunisti. In qualche modo la loro visione del mondo era più ottimista di quella berlingueriana e assumeva come possibile (magari irresponsabilmente) la prospettiva di un'alternativa e di un'alternanza al governo, anche con il 51% dei voti.
La reazione della Dc al compromesso storico e all'avanzata del Pci somigliò a una resistenza passiva: i governi che allora si succedettero cercarono di galleggiare tra crisi economica ed emergenza terroristica, senza aprire né chiudere ai comunisti la porta dell'ingresso in maggioranza. Prima ancora che una strategia organica questa indecisione programmatica era il frutto dei veti incrociati interni: la lotta tra le correnti del partito democristiano - che il sequestro Moro portò alla luce in tutto il loro ingombrante bagaglio di risentimenti - produceva un'inazione di fatto, che tuttavia a lungo andare conseguì il risultato di un logoramento del Pci, costretto a una lunga anticamera sulla soglia del governo che lo corresponsabilizzava senza la possibilità di contare nelle scelte. LamaEmblema di questa difficoltà fu la cosiddetta «linea dell'Eur» che nel 1978 il segretario della Cgil Luciano Lama propose ai sindacati: tregua salariale in cambio di un rilancio degli investimenti. Era la rinuncia unilaterale ad esprimere un progetto di cambiamento: le rivendicazioni nate con l'autunno caldo (egualitarismo, studio, salute) lasciavano il posto al loro contrario («sacrifici» fu la parola usata da Lama) riconsegnando al ceto imprenditoriale la chiave delle scelte di politica economica. L'anno prima in un discorso tenuto al teatro romano dell'Eliseo e rivolto agli intellettuali, Berlinguer aveva definito la classe operaia come «la forza sociale che oggi è la principale motrice della storia»: suo era il compito nazionale di indicare la via dell'austerità come occasione per trasformare l'Italia in senso meno consumista e più solidale. Già nel 1972 un gruppo di studiosi del Mit aveva per la prima volta sollevato il tema dei «limiti dello sviluppo»: crescita demografica accelerata e fonti di energia non rinnovabili a rischio di esaurimento (innanzitutto il petrolio) ponevano un gigantesco punto interrogativo sul futuro del pianeta. Il Pci raccolse questa indicazione in esplicita e secca controtendenza rispetto alle tendenze profonde del paese, che andavano invece nella direzione opposta di un'espansione dei consumi privati di massa. Fu una sfida coraggiosa e impopolare, che nell'immediato rimase senza esito ma nel medio periodo segnò un primo, decisivo distacco tra sinistre e senso comune di larghe fasce della popolazione.
BerlinguerIl terremoto elettorale, il sogno dell'alternanza, la baby boom generation rimasero insomma senza prospettive. Il terrorismo si infilò in questa contraddizione, rendendola ancora più insopportabile. Come nelle guerre e nei momenti di acuta crisi collettiva che ne hanno punteggiato la storia millenaria, il popolo italiano scelse allora d'istinto e quasi inconsapevolmente la strada del rifugio nel privato: famiglia, casa, lavoro e piccoli piaceri del tempo libero e della vita quotidiana ne riempirono l'orizzonte. La breve stagione di una nuova fiducia nella politica e nella possibilità di cambiare si chiudeva rapidamente. Più ancora che dalla incerta fermezza delle istituzioni (profondamente inquinate dalle trame della strategia della tensione, come lo scandalo della loggia massonica coperta denominata P2 portò alla luce) il terrorismo risultò sconfitto da questo ritorno alla consueta apatia della maggioranza (di nuovo) silenziosa. Lo si vide alla successiva tornata elettorale del 1979, quando la storica e fisiologica percentuale di astensioni (fissa attorno al 7% fino dal 1948) inaugurò una fase di espansione costante che la portò al 9,4% e poi verso le vette vicine al 20% degli anni duemila. Si dissolse allora rapidamente il luogo comune che voleva gli italiani depositari di una peculiare tradizione di partecipazione politica in un contesto europeo di molta minore affezione per la cosa pubblica. Al sondaggio Eurobarometer (che regolarmente tasta il polso delle opinioni pubbliche del continente) del gennaio 1983 italiani e belgi si dividevano il primato del più basso grado di interesse per la politica. È significativo che a raccogliere questa disaffezione per la politica fosse l'andamento dell'attenzione per i telegiornali, da sempre il genere più seguito dal pubblico televisivo. Tra 1976 e 1987 - ben prima che iniziasse nel 1991 l'epoca dei notiziari delle emittenti private - l'audience media dei tre telegiornali di prima serata quasi si dimezzava (da 22 a 13 milioni di spettatori).

4- L'Italia 1980-89: da paese industriale a paese ad economia post-industriale

Questo allontanamento dalla politica corrispondeva al venir meno di tradizionali meccanismi di coesione e solidarietà civile. Nel 1985 solo 4 su 50 giudici popolari accettarono di far parte della giuria del maxiprocesso intentato a Palermo contro la mafia. Ma corrispondeva anche a un movimento profondo, del tutto nuovo per la società italiana: l'emergere di un nuovo individualismo di massa. Quello che si aprì negli anni ottanta era un processo di ridislocazione degli equilibri antropologici, che riprendeva l'esplosione del Sessantotto (un altro degli effetti a distanza di quella rottura) dopo la parentesi degli anni settanta segnata dalla prevalenza dei partiti e dei grandi attori allegorici (in primis la classe operaia). Per usare i termini di un sociologo, storico ed economista come Albert Hirschman la felicità privata sostituiva la felicità pubblica: un ciclo usuale nella storia del genere umano. Innanzitutto il cambiamento si manifestò in alcuni indicatori demografici. Il primo era quello della crescita dei solitari: dei nuclei familiari composti da una sola persona. Solo in parte minore (circa un terzo) si trattava di single giovani e indipendenti. In parte largamente maggiore si trattava di anziani, che il potenziamento dei servizi e delle strutture sanitarie consentiva alle famiglie di espellere dal proprio seno. Parallelamente calava infatti il numero delle famiglie estese plurigenerazionali, entro le quali i nonni convivevano sotto lo stesso tetto assieme ai nipoti. In entrambi i casi la famiglia italiana veniva comunque meno al proprio tradizionale ruolo di ombrello sociale e di supplente dell'assistenza pubblica, in omaggio a un nuovo egoismo individuale che richiedeva spazi e risorse per sé. Come sottolinea Christopher Lasch non era un fenomeno solo italiano: la «cultura del narcisismo» attraversava tutto l'Occidente e rovesciava nella corsa ai consumi privati il senso civile della convivenza. Partecipazione e condivisione del vivere sociale non passavano più attraverso forme collettive di uso del tempo libero, bensì attraverso l'ostentazione di status symbol personali (di cui la cura del proprio corpo entrava a far parte). Secondo la penetrante immagine coniata dal politologo statunitense Robert Putnam, inizia l'epoca in cui a giocare a bowling si va da soli.
In secondo luogo le classi sociali entrarono in una fase di destrutturazione interna. I lavoratori dipendenti del comparto industriale cominciarono a ridursi in cifra assoluta e in percentuale sul totale della popolazione attiva: furono soprattutto le grandi fabbriche del nord a contrarre i propri organici con una perdita complessiva di posti di lavoro (tra 1974 e 1993 furono più di centomila ogni anno) che non riusciva ad essere compensata dalla parallela espansione delle piccole e medie imprese. In concreto, ad iniziare dagli ultimi anni '70 -grazie anche alla disponibilità dei personal computer- si accentuò una progressiva diffusione dell'informatica. Le grandi e medio-grandi aziende industriali e di servizi accelerarono "l'automazione" dei rispettivi processi produttivi. La classe operaia non solo si riduceva ma si trasformava. Crescevano infatti al suo interno gli strati impiegatizi: i «colletti bianchi» preposti alle mansioni tecnologiche "intellettuali" correlate alla produzione: ricerca, progettazione, commercializzazione, organizzazione del lavoro.
Nello stesso tempo, alla pari delle altre società avanzate, anche quella italiana era attraversata da intensi processi di terziarizzazione. I lavoratori dei servizi (tra i quali spiccavano quelli del pubblico impiego, che tra 1951 e 1993 crebbero dal 7% al 18%) sorpassarono quelli del settore industriale fino a superare nel 1993 il 41% della popolazione attiva. Tra 1980 e 1993 i posti di lavoro calarono di 5 milioni nel settore agricolo e di 8 milioni nel settore industriale, ma aumentarono di 22 milioni nel terziario.Il censimento del 1991 evidenzia che l'intera popolazione attiva italiana si ripartiva per il 7,6% in agricoltura,per il 35,6 nell'industria e per il 56,7 nel terziario. Il reddito pro-capite aveva raggiunto i 24.080 milioni; circa sei volte il reddito del 1951 e più del doppio del reddito del 1971. In parte largamente maggioritaria il terziario italiano era fatto di alberghi e negozi nel settore privato e di burocrazia nel settore pubblico. Ma nello stesso arco di tempo 1980-1993 si moltiplicavano per tre i liberi professionisti, per due gli imprenditori, i dirigenti di impresa e gli impiegati pubblici di qualifica medio-alta.
Non si trattava quindi - come invece si è erroneamente teorizzato da parte di Jeremy Rifkin - di una «fine del lavoro». Non solo perché i posti di lavoro industriale non sparivano ma più semplicemente si spostavano: tra 1960 e 1990 la quota che ne detenevano i paesi poveri in Asia, Africa e America latina salì da un terzo a due terzi del totale mondiale. Ma anche perché comunque nei paesi ricchi l'occupazione manifatturiera continuava a rivestire un ruolo cruciale: ancora nell'Italia degli anni novanta gli operai erano 6 milioni e mezzo (e sarebbero risaliti a 7 milioni nel 2005 grazie alla ripresa dell'edilizia) pari a quasi un terzo della popolazione attiva. Ciò che cambiava in Occidente era piuttosto il rapporto personale con il lavoro. Nella parte finale del xx secolo infatti in tutte le società avanzate il tempo di lavoro riduceva il proprio peso sul tempo di vita: perdeva importanza rispetto al tempo libero. Come sottolineò un sociologo francese, Pierre Bourdieu, le persone si ridefinivano in base non più soltanto all'occupazione professionale ma anche al capitale (sociale, culturale, simbolico) da esse in vario modo incorporato. Le loro forme di impegno civile (ambiente, pace, parità sessuale) si dividevano lungo linee estranee alla condizione lavorativa. Il tasso di sindacalizzazione della società italiana, che era cresciuto costantemente nel corso del ventennio precedente, negli anni ottanta calò dal 49% al 39%.
Il risultato era un'Italia più ineguale. Mentre gli anni settanta si svolsero all'insegna di un appiattimento delle retribuzioni che era frutto delle strategie egualitarie del sindacato e al tempo stesso sintomo e veicolo di una ricomposizione delle classi sociali, gli anni ottanta si mossero in senso diametralmente opposto. Aumentò la dispersione salariale in relazione alla crescita della quota di salario contrattata direttamente sul posto di lavoro, mentre in alcuni settori (agricoltura, trasporti) aumentava la quota di lavoratori dipendenti temporanei o comunque soggetti a condizioni retributive e normative di tipo speciale. Iniziava l'epoca - destinata a protrarsi fino ai giorni nostri - dei lavori «atipici», che sui media venivano sempre più spesso chiamati «Mcjobs»: il friggitore di patatine assunto con contratto a tempo ne diventò l'emblema.
All'altro estremo della scala sociale si registrarono movimenti opposti e simmetrici di dispersione verso l'alto. Tra 1984 e 1986, complice il lungo ciclo di rialzo dei profitti borsistici (destinato ad incontrare un duro crash alla fine del 1987) entrarono in borsa circa due milioni di nuovi azionisti e si quotarono più società dell'intero ventennio precedente. Al dinamismo della finanza si accompagnò il decollo del debito pubblico: era l'epoca dei Bot people - come i media definirono gli acquirenti di titoli di stato - le cui file vennero ingrossate dai pensionati che potevano permetterselo, ma anche da lavoratori autonomi, professionisti, imprenditori. Furono in molti già allora ad osservare criticamente, in tempo reale, l'instaurarsi di un circolo vizioso tra evasione fiscale e rendita finanziaria. La prima riduceva le entrate dello stato che era di conseguenza costretto a indebitarsi attingendo, per altra via, a quella parte di reddito di cui non riusciva ad impossessarsi; la seconda,cioè la rendita, si avvaleva dell'indebitamento della stato accrescendosi nel tempo.
La ricchezza si redistribuiva così secondo linee abbastanza chiare: calavano costantemente i redditi da lavoro, crescevano i profitti fino ad eguagliare i livelli record degli anni cinquanta. Secondo i dati dell'Ocse l'indice di Gini (una misura sintetica dell'ineguaglianza) dei redditi italiani al netto dei prelievi fiscali e dei trasferimenti sociali crebbe da 0,31 a 0,35 tra 1975 e 1995, di contro in Germania rimase stabile attorno a 0,27, in Francia calò da 0,31 a 0,28. Solo Gran Bretagna (0,35) e Stati Uniti (0,36) che passarono per la rivoluzione neoliberista di Thatcher e Reagan avevano indici vicini a quelli italiani. Una quota di italiani stabile nel tempo, attorno al 10%, era pienamente identificabile come povera: alloggiava in case popolari, non aveva accesso al sistema bancario, percepiva redditi inferiori alla metà della media nazionale. Erano famiglie numerose con un solo stipendio ma anche anziani solitari in pensione. È interessante vedere l'esatta percezione che gli italiani stessi hanno di questi processi.
A sostenere la crescita economica del paese reale fu negli anni ottanta la cosiddetta «terza Italia»: le aree del centro e del nord-est contraddistinte dai distretti industriali di piccole e medie imprese. Tessile a Prato, ceramiche a Sassuolo, calzature sportive a Montebelluna: nel 1981 erano più di 60 i distretti censiti in Italia, che rappresentavano altrettanti fulcri di un modello destinato a guadagnare una rapida notorietà internazionale. Si fondavano sulla concentrazione territoriale di conoscenze tecniche, derivanti da antiche esperienze artigiane, energie imprenditoriali, spirito cooperativo, industrializzazione diffusa, campagna urbanizzata, capacità di ascolto delle amministrazioni locali, coesione sociale garantita da subculture politiche tradizionali (bianca nel nordest, rossa nel centro), transizione dolce alla modernità industriale, senza grandi poli produttivi, regolazione sociale del mercato del lavoro grazie alle reti di solidarietà familiari e comunitarie.
In effetti la terza Italia non era un fulmine a ciel sereno. Era la faccia nuova di una tradizionale peculiarità della base produttiva italiana: già nel 1960 gli addetti in unità manifatturiere con meno di 100 occupati rappresentavano il 57% dell'occupazione industriale totale, contro il 36% della Germania ovest, il 26% degli Stati Uniti, il 19% della Gran Bretagna. Nelle zone della terza Italia si vennero concentrando, nel corso degli anni ottanta, la crescita dei livelli occupazionali, l'innovazione tecnologica e la competitività sui mercati internazionali, l'aumento della quota mondiale di esportazioni. Tra 1981 e 1996 le imprese con meno di 10 addetti furono le uniche a crescere in quota percentuale sul totale degli occupati (+8,8%) mentre precipitava (-43,7%) quella detenuta dalle grandi imprese con più di 250 dipendenti. Nel 2001 il censimento dell'Istat fissò un punto d'arrivo di questa crescita: le piccole fabbriche con meno di 10 operai corrispondevano ai quattro quinti (81%, per avere un minimo termine di raffronto negli Stati Uniti erano pari al 65%) della base industriale e a un quarto del totale degli occupati del settore.
Solo in minima parte la rete in espansione delle piccole imprese era il frutto di ricadute ed esternalizzazioni delle grandi aziende; assai più spesso era l'esito di processi di urbanizzazione di ex contadini alla ricerca di nuove attività economiche ma anche della trasformazione di operai in imprenditori. Accanto alle piccole imprese cresceva il lavoro autonomo. Tra 1979 e 1990 le occupazioni indipendenti non agricole crebbero in Italia (+3,4%) più di ogni altro paese occidentale, esclusa la Gran Bretagna. Alla fine degli anni novanta il ceto medio indipendente raccoglieva in Italia più di un terzo degli occupati, contro una media europea che oscillava tra l'8 e il 15%, eccezion fatta per Francia (23%) e Spagna (28%). Ma era un terzo che orientava il senso comune più generale e quindi pesava più del proprio volume quantitativo, in termini di intraprendenza, dinamismo, fiducia, speranza, ottimismo, rincorsa di una qualità materiale della vita. La terza Italia dei microimprenditori corrispose quindi al prodotto più vistoso della mobilitazione individualistica degli anni ottanta, che allo stesso tempo riscopriva e catalizzava una «fiducia a raggio corto», aggregata attorno alla società comunitaria dei distretti. Lo stato rimaneva sullo sfondo, sostituito da un patto sociale informale ma efficace su scala locale; le reti fiduciarie strette rimpiazzavano il senso della cittadinanza moderna.

L'Unione Sovietica, da Stalin a Gorbacev

1-La La Società sovietica ed il blocco comunista

A partire dal 1917 l'Unione Sovietica ha rappresentato un modello ideale di società egualitaria e solidale per buona parte del genere umano. E' vero che in molti militanti comunisti e socialisti di ogni parte del mondo gli elementi mitologici e millenaristici hanno a lungo prevalso sulla effettiva conoscenza di quella realtà. Ma è altrettanto vero che, con la stabilizzazione della guerra fredda e dell'equilibrio bipolare, quel tipo di società è diventato per molti abitanti della terra una realizzazione concreta. L'ideologia marxista-leninista si è configurata come un'alternativa alla democrazia parlamentare sia per paesi appena usciti dalla sottomissione coloniale all'Occidente sia per paesi (come quelli dell'est europeo) che già avevano alle spalle una storia di libertà e di crescita economica. L'adeguamento di realtà così distanti tra loro a quel modello sociale è stata la condizione per la tenuta di un blocco internazionale di stati retto dalla comune fedeltà militare alla patria di Lenin. Fino ad anni recenti questo blocco di paesi ha retto il confronto con il mondo occidentale, nonostante aspri e spesso armati conflitti interni. Poi, l'avvio di una riforma strutturale all'interno della nazione-guida sovietica, ha travolto in brevissimo tempo la struttura statale e il sistema di alleanze di quell'intero blocco di paesi con alcune eccezioni fra le quali Cuba e la Repubblica popolare cinese.
Quali sono stati nel secondo dopoguerra i tratti distintivi di questo tipo di società ? E quali i motivi di quel crollo così repentino e generalizzato ?
Un primo minimo comun denominatore tra Unione Sovietica e paesi del cosiddetto «socialismo reale» è rappresentato dalla nazionalizzazione e statizzazione delle leve economiche e dei mezzi di produzione, con una eliminazione almeno tendenziale ‑mai completa (come si vedrà) e spesso soggetta ad inversioni di tendenza ‑ della proprietà privata. Questa estensione della macchina statale si è accompagnata alla presenza sociale pervasiva di un partito di massa, sostanzialmente unico ed obbligatorio(con qualche eccezione come la Cecoslovacchia), che ha funzionato da strumento di mediazione tra società politica e società civile, di reclutamento e formazione dei quadri dirigenti, di trasmissione delle scelte dal centro alla periferia. La simbiosi tra stato e partito ha determinato una concentrazione del potere nelle mani di una ristretta oligarchia, formata dai vertici della burocrazia pubblica e partitica, delle forze armate, delle organizzazioni sindacali. La politica economica ha preso la forma di una pianificazione centralizzata che impone obiettivi di crescita alle singole realtà produttive indirizzate in particolare verso il settore dell'industria pesante, a discapito dell'espansione dei consumi interni. L'incremento di produttività è stato così ottenuto prevalentemente per via coercitiva piuttosto che per incentivi individuali e innovazioni tecnologiche, con il risultato di incontrare forti resistenze soprattutto nel settore agricolo collettivizzato.
Da questa conformazione dell'esercizio del potere è discesa una particolare stratificazione sociale. Le masse operaie e contadine hanno condotto un'esistenza passiva, spesso soddisfatta nei bisogni primari (casa, istruzione, sanità) e regolata dai ritmi di lavoro e dalle forme di uso del tempo libero fissate dalle autorità. L'ascesa sociale è stata sporadica, obbligatoriamente veicolati dalla militanza di partito. I ceti intermedi si sono divisi a seconda del ruolo gerarchico ricoperto nella burocrazia pubblica di stato e di partito: i tecnici, gli impiegati e i quadri delle realtà locali ne hanno occupato i gradini più bassi, mentre su quelli più alti si sono trovati gli esecutori su scala regionale delle scelte nazionali, come i dirigenti dei grandi complessi industriali, delle federazioni sindacali e delle organizzazioni di partito. Al vertice sedeva il ristretto nucleo incaricato di elaborare le strategie della pianificazione economica e gli indirizzi generali della politica e della propaganda, con un grado di potere e discrezionalità assai alto anche se spesso soggetto a lotte e conflitti tra segmenti diversi della macchina statale.
Sia in Unione Sovietica che nell'est europeo, per lungo tempo questo sistema ha realizzato tassi di crescita non lontani e anzi talvolta superiori a quelli occidentali. Ma a lungo andare la compressione del mercato interno, i ritardi nella industrializzazione leggera produttrice di beni di consumo, la staticità di un'agricoltura priva di spinta e competizione, hanno via via ristretto le risorse a disposizione dello stato per erogare i servizi sociali essenziali e colmare le diseguaglianze più gravi. Di questa crisi latente non sono mancati nel tempo i segnali drammatici e i coraggiosi tentativi di riforma, come la «primavera di Praga». Ma la risposta militare e rigidamente autoritaria, a quella possibile svolta, ha posto le premesse per il successivo tracollo. Sono infatti riemerse tendenze particolaristiche disgregatrici (che in Urss hanno preso la forma di nazionalismi) e si sono estesi fenomeni di spreco, inefficienza e corruzione.Mentre il potere centrale cercava di riformare in senso meno autoritario il rapporto con la società, la ripresa di canali di comunicazione con l'Occidente rendeva più tangibile e diffusa la coscienza dell'arretratezza del proprio tenore di vita.Da questo malcontento, non contenibile dalla repressiva dei regimi,sommato alla rivendicazione dei diritti civili, alla libera espressione politica, sindacale, artistica e culturale è venuta la spinta decisiva al cambiamento.

2-Gli ultimi anni di Stalin

Alla guerra l'Unione Sovietica aveva pagato il tributo più alto: 20 milioni di morti, 25 milioni di sfollati, intere regioni completamente devastate. Ma proprio la guerra, con il suo esito vittorioso, aveva ancor più rafforzato il prestigio e il potere di Stalin il quale, però,dovette affrontare l'emergenza tremenda ed il compito pressante della ricostruzione. Nella situazione critica dell'immediato dopoguerra ‑ che metteva a dura prova la stessa capacità di sopravvivenza del regime ‑ i punti di forza sui quali il dittatore poteva contare erano sostanzialmente due: l'apparato industriale cresciuto con lo sforzo bellico e i nuovi territori occupati a occidente dall'Armata Rossa nella sua battaglia contro il nazismo. Stalin non esitò a ricorrervi con la radicalità e la spregiudicatezza tipiche della sua attività di governo in pace e in guerra.
Nel marzo 1946 venne adottato dal Soviet supremo il quarto piano quinquennale, che si poneva l'ambizioso obiettivo di superare del 50% i livelli prebellici della produzione industriale. Le scelte del dopoguerra si collocavano in una linea di continuità con il passato e le leve utilizzate per la crescita erano quelle tradizionali della politica economica staliniana. Tra di esse, in primo luogo, una rigida centralizzazione delle decisioni nella mani di una burocrazia pubblica con forti poteri di controllo, che già nell'estate 1946 effettuò una vasta epurazione di quadri intermedi sia nel settore industriale che in quello agricolo. Nel novembre successivo la rimozione del maresciallo Zukov ‑ l'eroe della vittoria contro Hitler ‑ dalla carica di comandante in capo delle forze armate eliminava l'unico possibile rivale politico di Stalin, il cui potere autocratico raggiunse così il culmine.In continuità con il passato, veniva dato ulteriore impulso all'industria pesante, produttrice di acciaio, carbone, petrolio, elettricità, cemento e armamenti, e alle grandi opere pubbliche; le spese militari continuarono a coprire una fetta cospicua del bilancio statale, oscillante tra un quinto e un quarto del totale. Buona parte dei macchinari industriali localizzati nei paesi dell'est europeo, posti sotto controllo sovietico, fu requisita, smantellata e trasportata nella madrepatria per sostituire quelli andati perduti con la guerra. A fare le spese di questi indirizzi furono come sempre l'agricoltura, insieme ai consumi e al tenore di vita dei cittadini.Tra il 1945 e il 1950 solo il 12% degli investimenti fu destinato all'industria produttrice di beni di consumo, alimentari compresi. Nel dicembre 1947, l'abolizione delle tessere annonarie e del razionamento dei generi alimentari si accompagnò a una drastica riforma monetaria che sostituì e svalutò la valuta nazionale (ogni rublo nuovo valeva dieci rubli vecchi). In questo modo il debito pubblico venne praticamente azzerato.Si determinò un brusco aumento dei prezzi che penalizzava i risparmiatori e il potere di acquisto dei salari: la qualità di vita peggiorò ulteriormente. Ancora nel 1947 il salario medio industriale era pari alla metà di quello del 1940. Per di più, l'accento posto sull'industria pesante ritardò un effettivo rilancio dell'edilizia popolare e il problema dell'abitazione divenne cruciale per moltissime famiglie,in particolare nelle città più grandi. Ma fu soprattutto nelle campagne che si scaricarono i costi del piano quinquennale. Il regime staliniano conseguì alcuni risultati con la colonizzazione di terre non coltivate e l'avvio di grandi opere pubbliche di rimboschimento, irrigazione e impianto di centrali idroelettriche. Sulle strutture cooperative dell'agricoltura sovietica (i Kolchoz e i Sovchoz) furono invece rafforzati i controlli economici e politici e venne aumentata la pressione fiscale sugli appezzamenti personali dei contadini, mentre i prezzi dei prodotti agricoli furono fissati d'autorità a un livello più basso del dovuto. L'assenza di investimenti e quindi di innovazione tecnologica nei metodi di lavorazione della terra e dell'allevamento, unita alla mancanza di incentivi individuali, contribuirono così a mantenere la produttività su livelli molto bassi. Ancora nei primi anni Cinquanta la produzione di cereali era quasi uguale a quella degli ultimi anni dell'epoca zarista, la quantità di bestiame addirittura inferiore, a fronte di un imponente aumento della popolazione.
Nonostante queste ombre, Stalin annunciava al mondo nel 1951 un bilancio consuntivo soddisfacente del piano quinquennale: rispetto al 1940 la produzione industriale era aumentata del 73% e l'impulso dato all'industria pesante era riuscito a dotare il paese, nel settembre 1949, della bomba atomica, annullando il vantaggio accumulato dagli Stati Uniti. Sul piano interno, gli obiettivi di stabilizzare la base industriale del paese, risolvere il problema dell'approvvigionamento energetico, rinnovare la rete di trasporti erano stati sostanzialmente raggiunti. Il successo autorizzava perciò Stalin a varare un quinto piano quinquennale.Si esasperavano ulteriormente i caratteri del precedente fissando l'obiettivo di aumentare ancora del 70% la produzione industriale, attraverso una nuova concentrazione degli sforzi nel settore dell'industria pesante. Mentre in occidente la mobilitazione produttiva della società civile era frutto degli incentivi individuali forniti dall'espansione dei consumi privati, in Unione Sovietica lo stesso risultato era raggiunto con una pervasiva attività di propaganda, centrata sulla lotta per la sopravvivenza che il socialismo doveva sostenere contro il capitalismo e sulla battaglia contro i nemici interni ed esterni della società socialista, ma soprattutto con un rilancio in grande stile del controllo e della repressione poliziesca. Gli ultimi anni del regime staliniano videro il riaccendersi delle persecuzioni ad un livello assai vicino, se non superiore, a quello delle «grandi purghe» degli anni Trenta. Sulla base dei primi dati provenienti dagli archivi sovietici, si calcola che nel 1952 più di 2 milioni di persone fossero recluse nei gulag («Amministrazione statale dei campi di lavoro e correzione») e nelle colonie di lavoro conducendo una vita che il romanziere russo Solgenitsin ha descritto in Una giornata di Ivan Denisovic (1962). Solo la morte improvvisa di Stalin, il 5 marzo 1953, interruppe una campagna antisemita avviata nel gennaio precedente con il processo intentato ad alcuni medici ebrei (poi rilasciati in aprile) accusati di aver assassinato alti dirigenti dello stato e del partito.

3- La destalinizzazione

Stalin non aveva voluto né potuto designare un successore e la sua scomparsa privava bruscamente il regime sovietico del proprio baricentro. La carica di capo del governo venne affidata a Malenkov, considerato fin allora l'ombra di Stalin, mentre quella di segretario del partito a Nikita Krusciov, responsabile per i problemi dell'agricoltura. Ma il vero scontro per il potere fu combattuto contro il capo della polizia politica, Beria, che attraverso il ministero della sicurezza e il sistema dei gulag aveva costituito con la protezione di Stalin una sorta di dominio personale, capace di controllare e ricattare dirigenti e quadri dell'amministrazione statale e dell'organizzazione di partito. Nel luglio 1953 Beria fu arrestato sotto l'accusa di alto tradimento e subì l'esecuzione capitale, in dicembre.La leadership politica, esercitata collegialmente dai nuovi leader del Cremlino, ristabiliva così il proprio predominio sul potere autonomo degli apparati di polizia. Al tempo stesso Malenkov proclamò l'intenzione di invertire i criteri-guida della politica economica, rivalutando l'industria leggera e la produzione di beni di consumo. Era una scelta che inevitabilmente entrava in rotta di collisione con il complesso «militare-industriale» e cioè con il patto che ‑come accadeva negli Stati Uniti ‑ legava le forze armate all'industria pesante produttrice di armamenti.Questo, nel clima di una ossessiva preoccupazione per la sicurezza nazionale che caratterizzava gli anni della guerra fredda. I generali sovietici, infatti, reagirono duramente, costringendo alle dimissioni Malenkov, nel febbraio 1955.Lo sostituirono con il maresciallo Bulganin e reintegrarono a ministro della difesa il maresciallo Zukov.Dallo scontro tra i militari e gli uomini più legati a Stalin guadagnò spazi di iniziativa il leader del partito, Krusciov, che attuò alcune mosse importanti. All'interno fu avviata una nuova politica agricola, fondata sul decentramento delle scelte; e all'estero furono stretti rapporti con quei paesi ‑ come Cina, India, Egitto ‑ che si venivano affrancando dal loro passato di sottomissione coloniale ed erano alla ricerca di un partner economico in grado di fornire supporto tecnico e commerciale al loro autonomo sviluppo.
Era l'avvio di un primo «disgelo» ‑ come suonava il titolo del romanzo dello scrittore russo Ehrenburg (1954) ‑ tra il potere politico e la società che non poteva non suscitare le resistenze delle strutture consolidate da decenni di stalinismo. Krusciov decise di giocare d'anticipo. Il XX congresso del partito, nel febbraio 1956, fu scelto dal segretario come sede per una accelerazione dello scontro in atto. Nella sua relazione pubblica il segretario confermò la linea di una coesistenza pacifica e competitiva con il mondo capitalista, che attenuava le previsioni di guerra dell'epoca staliniana e, di conseguenza, il potere dei militari. Ma l'atto più clamoroso di Krusciov fu il rapporto segreto* svolto all'ultima seduta del congresso, tenuta a porte chiuse, che demoliva radicalmente la figura di Stalin: «il culto della personalità» aveva aperto la strada a una serie di violazioni gravissime della democrazia e della legalità, il potere illimitato personale si era tramutato in arbitrio e terrore giungendo spesso alla eliminazione fisica dei presunti avversari, condannati sulla base di confessioni estorte con la tortura. Il rapporto che doveva rimanere segreto, venne però reso pubblico nel giugno successivo dal New York Times.Segnò un trauma profondo per milioni di persone che in tutto il mondo avevano avuto fede in Stalin come capo politico. Com'era da aspettarsi, il brusco avvio della destalinizzazione sarebbe stato gravido di conseguenze nei rapporti tra l'Urss e i paesi entrati a far parte del blocco sovietico.Il primo sintomo fu lo scioglimento del Cominform (la struttura di collegamento tra i partiti comunisti creata nel 1947) nell'aprile 1956.
Sul piano interno lo strappo del XX congresso portò alla riorganizzazione della polizia politica in una nuova struttura, il Kgb (Komitet Gosudarstvennoj Bezopasnosti, «Comitato per la sicurezza dello stato»), con a capo funzionari di partito e posta alle dirette dipendenze del consiglio dei ministri. La rete dei gulag venne smantellata, anche se le responsabilità del passato vennero attribuite al solo Stalin e alla ristretta cerchia dei suoi collaboratori, rinunciando a un'opera di rinnovamento in profondità. Con il potere militare Krusciov cercò di non approfondire i motivi di scontro: nel maggio 1956 gli effettivi delle forze armate furono ridotti ma all'esercito Krusciov dovette ricorrere per domare la rivolta ungherese nell'ottobre 1956. Nello stesso tempo venne dato grande impulso alla ricerca scientifica e tecnologica nel campo dell'armamento nucleare e missilistico, riportando nell'ottobre 1957 il primo grande successo sugli Stati Uniti con il lancio dello Sputnik, il primo satellite artificiale orbitante attorno alla terra alla velocità di 27 mila chilometri l'ora. I nuovi rapporti con il complesso militare-industriale consentirono a Krusciov di superare la grave crisi seguita agli avvenimenti di Polonia e d'Ungheria, quando gli avversari del segretario attribuirono proprio alla sua politica di destalinizzazione la responsabilità di una perdita di unità e disciplina tra i paesi del Patto di Varsavia. Messo in minoranza nel giugno 1957 all'interno del massimo organo dirigente del partito, Krusciov chiese la convocazione dell'organo più ampio, il Comitato Centrale, dove riottenne la maggioranza. Alcuni esponenti della vecchia guardia staliniana ‑ come il ministro degli esteri Molotov e lo stesso primo ministro Malenkov ‑ furono messi da parte nel luglio successivo, e in ottobre fu destituito anche il maresciallo Zukov. Questa politica di equilibrio e bilanciamento tra i diversi centri di potere della società sovietica condusse Krusciov a riunificare di nuovo nelle proprie mani nel marzo del 1958‑ per la prima volta dopo Stalin ‑ i ruoli di capo del governo e di segretario del partito.
Risolti almeno temporaneamente a proprio favore i rapporti di forza al vertice, Krusciov cercò di affrontare il problema di fondo posto dalla destalinizzazione: quali dovevano essere i nuovi limiti del potere costituito e soprattutto quali nuovi incentivi potevano spingere gli individui a lavorare e produrre?
L'attenuazione del sistema di terrore costituì il preludio per alcune misure che tendevano ad allentare la morsa del partito sulla società civile, fermo restando il principio del monopartitismo. Nel Pcus fu dapprima introdotto il criterio della rotazione periodica degli incarichi di partito.Poi nel novembre 1962, fu ripristinata nell'industria la libertà di autolicenziamento per gli operai impiegati nelle imprese di stato, abrogata da Stalin nel 1940. A partire da questo momento, per tutta l'era kruscioviana, almeno un terzo degli addetti industriali sovietici cambiò posto di lavoro ogni anno. Il sistema scolastico privilegiò l'istruzione tecnica. L'inflessibile centralismo dei piani quinquennali fu prima controbilanciato, nel maggio 1957, dall'istituzione di regioni industriali autonome governate da consigli direttivi e poi definitivamente sospeso nel settembre, con l'interruzione del sesto piano varato nel 1956.Fu sostituito con un piano settennale di prospettiva, assai meno rigido nella determinazione degli obiettivi di produzione. Fu avviato un nuovo piano di edilizia popolare e le macchine agricole vennero vendute dallo stato ai kolchoz.In concomitanza di una serie di buoni raccolti, si ebbe una sostenuta ripresa della produzione agricola. Rimaneva tuttavia irrisolto il problema dell'industrializzazione leggera del paese e della correlata espansione del mercato dei beni di consumo, reso ancor più urgente dalla rinnovata espansione demografica.Nel 1955 la popolazione era tornata ai livelli prebellici.Nel 1959 (per la prima volta nella storia dell'Urss) gli abitanti della città sopravanzarono il numero di quelli delle campagne. Nonostante gli indubbi successi conseguiti sul piano tecnologico che videro nell'aprile 1961 il lancio del primo uomo (il pilota Yuri Gagarin) nello spazio orbitale, nel 1960 il prodotto nazionale lordo sovietico era ancora fermo a pocoGagarin più di metà di quello statunitense.
La destalinizzazione «dall'alto», condotta da Krusciov su una linea sottile e delicata di compromesso con il passato e di liberalizzazione parziale della società, autorizzò il segretario del partito a prevedere solennemente ‑ al XXII congresso del partito nell'ottobre 1961 ‑ il passaggio dal socialismo al comunismo, inteso come superamento del tenore di vita dei paesi capitalistici, e a rilanciare gli attacchi a Stalin, la cui salma venne rimossa dal mausoleo di Lenin sulla Piazza Rossa. In realtà rimaneva aperta la contraddizione tra questi correttivi limitati e un sistema oligarchico e autoritario, diretto da un ristretto numero di persone senza controlli dal basso. I problemi più gravi, per il segretario del Pcus, vennero comunque dalla politica estera. La crisi del 1956 aveva irreversibilmente minato il principio di autorità all'interno del campo socialista: lo stesso Patto di Varsavia che, dal maggio 1955, stabiliva i termini della alleanza militare tra l'Urss e i paesi dell'est europeo, contribuiva ad assegnare agli alleati una dignità paritetica con lo stato-guida sovietico nonché la possibilità di contatti e accordi orizzontali senza necessariamente passare da Mosca. Gli effetti positivi di una ripresa di rapporti con la Jugoslavia furono rapidamente cancellati dal conflitto apertosi nel 1958 con la dirigenza comunista cinese, che premeva senza successo per un ingresso paritario nel «club» delle potenze nucleari e nel concerto diplomatico delle due superpotenze. Nel giugno 1959 Krusciov decise dapprima di rompere la collaborazione nel campo dell'energia nucleare con la Cina e poi, nel luglio 1960, di ritirare i tecnici e i consiglieri sovietici inviati in territorio cinese negli anni precedenti. La rottura spinse i dirigenti cinesi a un'azione di fronda nei confronti della leadership sovietica ‑ incentrata su un rilancio della lotta antiimperialista dei paesi più poveri ‑ che trovò appoggi espliciti nei partiti comunisti asiatici e in quello albanese ma incoraggiò anche la Romania guidata da Gheorghiu Dei a rivendicare uno spazio autonomo di crescita industriale libero dalla sudditanza commerciale con l'Urss.
La politica estera kruscioviana andava dunque incontro a diverse delusioni ‑ cui andava aggiunto anche l'esito della crisi di Cuba.Sul piano interno continuava a crescere il peso di un «produttivismo austero» privo di una correlata e adeguata espansione dei consumi privati. Erano ormai mature le condizioni per una rimozione di Krusciov che venne deposto nell'ottobre 1964 -senza suscitare opposizioni- da una «trojka» composta da Breznev, nuovo segretario del partito, Kossighin, nuovo capo del governo, e Podgorny, nuovo capo dello stato.

4- La restaurazione brezneviana

Il cambio al vertice era l'espressione di un nuovo compromesso tra i poteri forti (esercito, partito, sindacato) che si erano ribellati alla direzione personalistica e aggressiva di Krusciov. Le cariche di governo e di partito furono nuovamente separate e si tornò al principio di una formazione collegiale delle decisioni.In politica estera la caduta di Krusciov si tradusse in un rinnovato impegno diplomatico sovietico in Asia, attraverso una nuova politica di aiuti al Vietnam e alla Corea del Nord. All'interno l'effetto più vistoso fu la chiusura della stagione del disgelo. Alla parziale liberalizzazione dell'epoca kruscioviana fece seguito una ripresa della repressione poliziesca, che si esplicò nel 1966 con il processo ai due scrittori Siniavsky e Daniel, rei di aver pubblicato all'estero scritti ritenuti antisovietici, e con il divieto reiterato di ritiro del premio Nobel imposto ad altri artisti russi come Solgenitsin e Pasternak. La vita culturale venne costretta alla clandestinità e si sviluppò il fenomeno del «dissenso» tra ristretti gruppi di intellettuali e scienziati ‑ come il fisico Sacharov, in passato collaboratore al progetto della bomba atomica sovietica e adesso obbligato a passare lunghi periodi di internamento in ospedali psichiatrici ‑ che si battevano per il riconoscimento dei diritti civili e delle libertà individuali, i cui scritti, circolavano illegalmente dentro e fuori i confini dell'Unione Sovietica. Alla chiusura sul piano politico e culturale fecero riscontro alcune parziali aperture sul terreno economico. Si tentò di risolvere l'annoso problema degli incentivi individuali attraverso una crescita degli investimenti statali nella produzione di beni di consumo e una relativa autonomia concessa alle direzioni aziendali per il reimpiego dei propri profitti in integrazioni salariali. Rinnovato impulso venne dato alle politiche edilizie. Nel 1969 un congresso nazionale dei contadini dei kolchoz ‑ il primo dopo il 1935 ‑ ottenne il riconoscimento del diritto alla pensione di anzianità e della libertà di movimento per tutto il territorio nazionale. Si aprirono anche spazi maggiori alla collaborazione commerciale con i paesi occidentali e particolarmente con gli Stati Uniti che, fin dal cattivo raccolto del 1963, erano diventati fornitori di grano sul mercato sovietico. Nell'aprile 1966 la visita in Italia del ministro degli esteri Gromyko portò alla conclusione di un accordo con la Fiat per la costruzione di uno stabilimento automobilistico in Urss. Ma queste aperture furono presto limitate da un nuovo incremento delle spese militari, che nel 1969 spostarono di novo il baricentro della crescita sovietica in direzione dell'industria pesante.
La stabilizzazione seguita alla caduta di Krusciov prendeva così la forma di un nuovo patto sociale non scritto, che riduceva di molto, rispetto all'epoca staliniana, il peso del terrore repressivo organizzato restringendolo di fatto ai fenomeni di dissidenza intellettuale.Nel contempo concedeva a tutti alcune sicurezze ‑ casa, lavoro,sanità,scuola ‑ sia pure a un basso livello qualitativo. Perduravano le compressione dei consumi individuali e del tenore di vita. Per garantire queste sicurezze veniva impiegata una quota crescente del reddito nazionale ‑ ferma restando la preminenza accordata alle spese militari ‑ e si riduceva di conseguenza il volume degli investimenti. Il risultato era quello di un aumento considerevole della stabilità e della pace sociale accompagnato, però da un calo progressivo della produttività e da un blocco sostanziale dell'innovazione tecnologica: aspetti di fondo che non mancheranno di far sentire il proprio peso nel medio periodo.
Garante e tutore di questo patto sociale era la nomenklatura, cioè la burocrazia di stato e di partito, depositaria del potere e responsabile della pianificazione economica, privilegiata nelle retribuzioni e nella qualità di vita. Priva di controlli democratici e di trasparenza nei metodi di reclutamento e carriera, questa «nuova classe» ‑ così si intitolava l'opera del dirigente comunista jugoslavo Gilas (1957) ‑ era strutturalmente esposta a fenomeni di nepotismo e corruzione, che in epoca brezneviana si diffusero a macchia d'olio. La crescita del malcostume nelle sfere dirigenti, che ne minava alla base il prestigio e l'autorità, andava in parallelo allo sviluppo di una «seconda economia», parallela a quella ufficiale e legata al fenomeno del mercato nero, fornitore illegale di valuta straniera e di prodotti poco reperibili che davano vita a un terreno di coltura adatto allo sviluppo di veri e propri nuclei di criminalità organizzata.
La piena coscienza di questa debolezza profonda del proprio modello di sviluppo, dettò al Cremlino un atteggiamento di rigida intransigenza contro ogni fonte di instabilità esterna, il cui potenziale contagio rischiava di trovare terreno facile non soltanto negli altri paesi membri del Patto di Varsavia ma nell'Unione Sovietica stessa. Per questa ragione l'esperimento di parziale liberalizzazione interna avviato in Cecoslovacchia nel 1968, che pure ‑ a differenza di quello ungherese del 1956 ‑ era pienamente diretto dal partito comunista e si muoveva entro un orizzonte di fedeltà all'alleanza politica e militare con l'Urss, venne duramente represso con un intervento militare. Al soffocamento della «primavera di Praga» fecero seguito, nel marzo 1969, gli scontri alla frontiera con la Cina in prossimità del fiume Ussuri. Ma alla conferenza dei partiti comunisti che si tenne nel giugno dello stesso anno a Mosca, alla presenza dei delegati di 75 paesi, la proposta sovietica di un documento di condanna del partito cinese venne clamorosamente battuta dopo un dibattito che vide emergere posizioni di netta condanna ‑ tra cui quella di Berlinguer, in rappresentanza del partito italiano ‑ anche dell'intervento in Cecoslovacchia.
A partire dal 1970, comunque, l'economia sovietica perse slancio e tutti i suoi indicatori di crescita apparvero in netto rallentamento. Il susseguirsi di cattivi raccolti si accompagnò al lento esaurimento delle risorse estensive, legate alla crescita demografica naturale e al dissodamento e sfruttamento di nuove terre, all'impervia e costosa localizzazione in Siberia di nuove fonti di energia (gas, petrolio), alle difficoltà di penetrazione delle nuove tecnologie.
Nonostante l'ormai massiccio e sistematico ricorso alle importazioni, le grandi città si trovarono ad affrontare ricorrenti crisi di approvvigionamento anche dei generi di prima necessità, che dettero nuovo alimento all'inflazione e alla piaga del mercato nero. La parola d'ordine della stabilità, su cui Breznev aveva fondato il proprio consenso, fu messa seriamente in discussione e la nomenklatura sovietica cercò di giocare la carta estrema di un rilancio della politica di potenza sul piano internazionale, sfruttando la momentanea debolezza degli Stati Uniti sconfitti in Vietnam.

Scheda: il rapporto segreto di Krusciov *

Durante i lavori del XX Congresso del Partito comunista dell'Unione Sovietica, nella notte tra il 24 e il 25 febbraio 1956, si tenne una seduta a porte chiuse riservata ai soli delegati. Il segretario Nikita Krusciov vi tenne un lungo rapporto che per la prima volta rivelava la portata dei crimini di Stalin: arresti, deportazioni, processi sommari, esecuzioni capitali che avevano colpito migliaia di cittadini. Secondo le ricerche più recenti si trattò di una scelta personale di Krusciov - la relazione introduttiva pubblica aveva semplicemente accennato in modo generico alla questione del «culto della personalità» - che servì a mettere sulla difensiva e di fronte al fatto compiuto i suoi oppositori al vertice del partito, molti dei quali legati alla «vecchia guardia» staliniana. Il rapporto era destinato perciò a rimanere segreto e anche gli osservatori stranieri che ebbero modo di prenderne visione - tra cui i segretari dei partiti comunisti italiano e francese, Togliatti e Thorez - si mantennero fedeli alla consegna del segreto, non rivelandone il contenuto nemmeno ai loro collaboratori più stretti. Per vie traverse, ancora non del tutto accertate - ma gli indizi convergono verso la dirigenza dello stato polacco - il rapporto Krusciov pervenne al Dipartimento di stato americano che, valutata la situazione, decise di renderlo pubblico allo scopo di creare difficoltà alla nuova e ancora fragile leadership del Cremlino. Il 5 luglio 1956 il documento venne pubblicato per esteso dal quotidiano «New York Times» ed ebbe subito una risonanza enorme. Per milioni di militanti comunisti fu la fine traumatica di un mito che la vittoria nella seconda guerra mondiale aveva contribuito in misura decisiva ad alimentare: non solo crollava la fede in un uomo - in Occidente come in Oriente il culto della personalità rappresenta uno dei tratti peculiari del XX secolo - ma anche un modello di società, spesso esaltato alla stregua di un paradiso terrestre, veniva seriamente posto in discussione. Come si vedrà dagli estratti che seguono, il rapporto di Krusciov era centrato sulla contrapposizione di Stalin e del suo metodo di governo a Lenin, di cui venne pubblicizzato il testamento che nel 1924 metteva in guardia la direzione del partito bolscevico dal concentrare troppo potere nelle mani di Stalin. Lo scopo trasparente era cioè quello di circoscrivere la degenerazione dello stato sovietico alle responsabilità di un solo uomo e delle sue ossessioni personali: con un procedimento assai poco scientifico e marxista, come lo stesso Togliatti osservò nell'intervista rilasciata a «Nuovi argomenti» nell'estate del 1956.

Quando si analizza la condotta di Stalin nei confronti della direzione del partito e del paese, quando ci si ferma a considerare ciò che Stalin ha commesso, bisogna ben convincersi che i timori di Lenin erano giustificati. I difetti di Stalin, che al tempo di Lenin erano solo in germe, avevano assunto il carattere di un autentico dispotismo, che ha arrecato indicibili danni al nostro partito...
Stalin non agiva con la persuasione, con le spiegazione la paziente collaborazione con gli altri, ma imponendo le sue idee ed esigendo una sottomissione assoluta. Chiunque si opponeva ai suoi disegni o si sforzava di far valere il proprio punto di vista e la validità della sua posizione era destinato ad essere estromesso da ogni funzione direttiva, e, in seguito, «liquidato» moralmente e fisicamente. Questo fu particolarmente vero nel periodo seguito al XVII Congresso, quando eminenti dirigenti e semplici militanti del partito, gente onesta e devota alla causa del comunismo, caddero vittime del dispotismo di Stalin.
Dobbiamo ricordare che il partito dovette sostenere una dura lotta contro i trotskisti, i destri e i nazionalisti borghesi e che esso disarmò ideologicamente tutti i nemici del leninismo. Questa lotta ideologica è stata condotta a termine con successo, col risultato di rafforzare e temprare il partito. Qui Stalin ha avuto una funzione positiva...
Mette conto osservare che, anche durante il corso della furiosa lotta ideologica contro i trotskisti, gli zinovievisti, i bukhariniani ed altri, non si erano mai adottate contro di loro misure estreme di repressione, poiché la lotta veniva combattuta sul terreno ideologico. Ma alcuni anni più tardi, quando il socialismo era fondamentalmente edificato nel nostro paese, quando le classi sfruttatrici erano state generalmente liquidate, quando la struttura sociale sovietica era radicalmente cambiata, quando la base sociale per i movimenti e i gruppi politici ostili al partito si era estremamente ridotta, quando gli avversari politici del partito erano da tempo politicamente vinti, si scatenò contro di loro la repressione.
Fu precisamente in questo periodo (1935-1937-1938) che nacque la pratica della repressione in massa attuata mediante l'apparato dello stato, prima contro i nemici del leninismo - trotskisti, zinovievisti, bukhariniani, da tempo sconfitti politicamente dal partito - e poi anche contro molti onesti comunisti, contro i quadri del partito, che avevano sopportato il grave onere della guerra civile, i primi e più difficili anni dell'industrializzazione e della collettivizzazione e che si erano attivamente battuti contro i trotskisti e la destra per il trionfo della linea leninista in seno al partito.
Fu Stalin a formulare il concetto di «nemico del popolo». Questo termine rese automaticamente inutile il fornire la prova degli errori ideologici dell'uomo o degli uomini impegnati in una controversia; rese possibile l'uso della repressione più crudele, in violazione di tutte le norme della legalità rivoluzionaria, contro chiunque fosse in qualunque modo in disaccordo con Stalin; contro chi fosse anche solo sospetto di intenzioni ostili, contro chi avesse una cattiva reputazione...
Ciò portò a violazioni patenti della legalità rivoluzionaria e al fatto che molte persone del tutto innocenti, che nel passato avevano difeso la linea del partito, si trovarono tra le vittime. Va anche detto che, per quanto riguarda coloro che un tempo si erano opposti alla linea del partito, non v'erano spesso ragioni sufficientemente serie per la loro liquidazione fisica. La formula «nemico del popolo» era stata creata appunto allo scopo di annientare fisicamente tali individui.
È un fatto che molti uomini, che più tardi furono soppressi come nemici del partito e del popolo, avevano collaborato con Lenin, quando egli era vivo. Alcuni di loro avevano commesso errori, quando Lenin era ancora vivo, ma nonostante questo, egli aveva messo a profitto il loro lavoro, li aveva riportati sulla buona strada e aveva fatto tutto il possibile per mantenerli nei ranghi del partito, incitandoli a seguire il suo esempio...
Tutti sanno come Lenin fosse implacabile con i nemici ideologici del marxismo, con coloro che deviavano dalla linea corretta del partito. Ma nello stesso tempo, Lenin esigeva, nel suo metodo direttivo del partito, il più stretto contatto dentro il partito con gli uomini che avevano mostrato qualche decisione o un temporaneo non conformismo con la linea del partito, ma che era possibile riportare sulla buona strada. Lenin consigliava di educare pazientemente questi uomini, senza ricorrere a provvedimenti estremi...
Stalin aveva rinunciato al metodo leninista della persuasione e dell'educazione; aveva abbandonato il metodo della lotta ideologica sostituendolo con quello della violenza amministrativa, delle repressioni in massa e del terrore. Agiva, su scala sempre più grande e in maniera sempre più inflessibile, mediante gli organi punitivi, violando nello stesso tempo tutte le norme esistenti della moralità e della legislazione sovietica.
Il comportamento arbitrario di un solo individuo incoraggiò e permise gli arbitri degli altri. Arresti e deportazioni in massa di parecchie migliaia di persone, esecuzioni senza processo e senza la normale istruzione, crearono condizioni di insicurezza, di paura e financo di disperazione. Ciò, naturalmente, non contribuì all'unità nelle file del partito e in tutti gli strati della popolazione lavoratrice, ma, al contrario, ebbe come effetto l'espulsione dal partito, e poi la soppressione di leali militanti, che per Stalin erano degli incomodi.
Il nostro partito ha combattuto per l'applicazione delle idee di Lenin e per l'edificazione del socialismo. Fu una lotta ideologica. Se, nel corso di questa lotta, i princìpi leninisti fossero stati osservati e se la fedeltà del partito a quei princìpi fosse stata abilmente congiunta a una costante sollecitudine per gli uomini, se questi uomini non fossero stati allontanati e respinti con durezza, ma attirati piuttosto verso di noi, non avremmo certamente conosciuto questa violazione brutale della legalità rivoluzionaria e migliaia di persone non sarebbero state vittime dei metodi terroristici. L'uso di misure eccezionali sarebbe stato rivolto solamente contro coloro che avessero commesso realmente atti delittuosi contro il sistema sovietico...
Possedendo un potere illimitato, si abbandonava all'arbitrio e annientava le persone moralmente e fisicamente. Ne derivava che nessuno poteva esprimere la propria opinione. Quando Stalin diceva che questo o quello doveva essere arrestato, bisognava ammettere sulla parola che si trattava di un «nemico del popolo». E la cricca di Beria, responsabile degli organi di sicurezza dello stato, andava a gara per provare la colpevolezza degli arrestati e la validità dei documenti che essa falsificava. E quali prove erano offerte? Le confessioni dei detenuti. I giudici inquirenti prendevano sul serio queste confessioni. E come può un uomo confessare delitti che non ha commesso? In un solo modo: in seguito all'applicazione dei metodi di pressione fisica, di torture, che conducono a uno stato di incoscienza, di crollo intellettuale, di privazione della dignità umana. Così si ottenevano le «confessioni».

5- Da Breznev a Gorbacev

Quando ai primi di marzo del 1985 morì Konstantin Cernenko, segretario del Pcus, nessuno immaginò che nel giro di pochi anni l'Urss si sarebbe profondamente trasformata fino a dissolversi, trascinando nella sua fine i regimi comunisti dei paesi dell'Europa centro-orientale.
Negli anni '70 il potere di Breznev si era rafforzato sulla base di un accordo tra i principali gruppi dominanti.Prevalse un conservatorismo esasperato e la disciplina di partito ebbe il sopravvento sulle esigenze degli strati tecnico-scientifici. E' attorno alla metà degli anni '70, tuttavia, che ha inizio quella crisi che diverrà evidente circa dieci anni dopo.
L'Urss era ormai un paese durevolmente urbanizzato, in cui, per motivi demografici, non si aveva più quella riserva di manodopera che, in passato, aveva permesso un costante sviluppo industriale. Crollò la produttività e, con l'esclusione del settore militare, diminuirono gli investimenti. Il macchinario era invecchiato e si cercò di porvi rimedio con importazione di tecnologia dall'occidente, che venne pagata sfruttando intensamente le risorse energetiche. Una serie di raccolti disastrosi (in parte dovuti al clima, in parte alle insufficienze dello stoccaggio e dei trasporti) acuì la crisi semipermanente dell'agricoltura.
L'incapacità del sistema di utilizzare il potenziale umano e intellettuale di una società fortemente acculturatasi e modernizzatasi nell'ultimo ventennio, portò alla criminalizzazione di ogni iniziativa individuale. La centralizzazione, la burocrazia, i numerosi vincoli amministrativi e il rafforzamento dei controlli politici condussero l'economia sovietica in uno stato di stagnazione e di rapida obsolescenza. Breznev favorì il crescere della corruzione e dei privilegi della nomenklatura, cooptando ai vertici del potere clan a lui legati da vincoli di parentela, di amicizia e interessi. La distanza tra il partito e la società si accentuò ancora di più, insieme al crescere delle disuguaglianze sociali ed economiche.
Fu questo il periodo in cui la lotta contro il dissenso divenne più ampia e continua, mentre in politica estera prevaleva un nuovo orientamento aggressivo ed espansionista. La distensione con l'occidente, che trovò il suo apogeo nella conferenza di Helsinki del 1972 (l'Urss s'impegnò a non usare i partiti comunisti per indebolire il capitalismo e in cambio vide riconosciuto l'«ordine sovietico» all'est, impegnandosi, ma solo formalmente, a riconoscere i diritti civili ai propri cittadini) e nel trattato di limitazione delle armi nucleari, non durò a lungo. Convinto che la sconfitta americana nel Vietnam e gli sviluppi del caso Watergate (che avevano costretto il presidente Nixon a dimettersi) avessero indebolito gli Stati Uniti, Breznev ritenne di poter modificare a proprio vantaggio l'accordo e l'equilibrio da tempo esistente tra le due superpotenze. Accanto alla «competizione» tra i due campi, che aveva preso il posto della «coesistenza» dell'epoca chrusceviana, l'Urss sviluppò una politica di «mondializzazione» che la condusse a una maggiore e più incisiva presenza in Medio Oriente e in Africa (Angola, Mozambico, Somalia, Etiopia, Yemen del sud).
Le guerre in Angola e in Etiopia, dove il coinvolgimento dell'Urss fu anche militarmente più rilevante, indebolirono la distensione e dettero a Breznev l'impressione di poter estendere il proprio controllo diretto dove esercitava la propria influenza. La rivoluzione islamica che nel 1978 aveva portato in Iran alla cacciata dello shah aveva nel frattempo costituito una ulteriore sconfitta per gli Stati Uniti. L'atto più rilevante di questa nuova politica sovietica fu l'invasione dell'Afghanistan che ebbe luogo nel dicembre del 1979 con lo scopo di imporre un regime «amico» dell'Urss.
Breznev trascorse l'ultimo periodo della sua vita sempre più malato e lontano dalla vita pubblica. Morì nel novembre 1982 e venne sostituito da Jurij Andropov, per quindici anni alla testa del Kgb (la polizia politica dell'Urss). Nei quindici mesi in cui fu segretario del Pcus (morì infatti nel febbraio 1984), Andropov pose le basi per una serie di riforme politiche ed economiche che non ebbe modo di attuare, ma della cui necessità e improrogabilità era tuttavia consapevole. Favorì l'inserimento ai vertici del partito di dirigenti più giovani appartenenti al gruppo dei rinnovatori.
Alla sua morte prevalse tuttavia il peso del vecchio apparato e venne eletto nuovo segretario del Pcus Konstantin Cernenko. Anch'egli, tuttavia, era gravemente malato e sopravvisse al nuovo incarico per un anno soltanto.

6 - L'Europa centro-orientale negli anni '70 e '80

L'invasione della Cecoslovacchia nel 1968 e la proclamazione della «dottrina Breznev» avevano segnato la fine delle nuove speranze di cambiamento all'interno delle democrazie popolari. Nei paesi dell'est l'idea del socialismo equivale ormai a coercizione e violenza: gli oppositori del regime non s'illudono più di poter riformare il sistema, abbandonando ogni ipotesi di socialismo critico o «dal volto umano».
Nel dicembre 1970 una nuova rivolta scosse tuttavia le democrazie popolari In Polonia la polizia aprì il fuoco contro gli operai dei cantieri navali di Danzica, scesi in sciopero contro l'aumento dei prezzi dei generi alimentari. La ribellione si estese su tutto il litorale baltico, le sedi di partito vennero assalite.I morti furono 44 e i feriti oltre mille. Gomulka, a capo del partito dal 1956, fu costretto a dimettersi, sostituito da Edward Gierek, che venne incontro alle richieste degli operai e introdusse una serie di miglioramenti nel tenore di vita della popolazione.
Questa politica ebbe successo nel breve periodo, ma non poté impedire che a metà degli anni '70 si presentasse una crisi ancora più grave, frutto di un debito estero della Polonia sempre più grande. Anche Gierek, nel giugno del 1976, fu costretto ad aumentare i prezzi e a reprimere con durezza le manifestazioni di protesta. Molti dei duemila arrestati vennero condannati a dieci anni di carcere. Nel corso dei processi nacque una nuova opposizione, questa volta non politica e di taglio solidaristico, che riuscì ad unire operai e intellettuali. L'attività clandestina crebbe di giorno in giorno, i giornali illegali e le forme di propaganda e di resistenza si moltiplicarono, si crearono università «volanti» e si fondò un sindacato autonomo. Le associazioni per i diritti civili, che si richiamavano agli impegni sottoscritti a Helsinki anche dalla Polonia, si diffusero in tutto il paese trovando una forte spinta al momento dell'elezione al soglio pontificio, nell'ottobre 1978, del papa polacco Karol Woytila, Giovanni Paolo II.
Nel 1979 si moltiplicarono nuove proteste e agitazioni, scioperi e manifestazioni, che culminarono nell'agosto con la nascita di Solidarnosc, il primo sindacato libero e indipendente di un paese socialista. L'opposizione cresceva, mentre il governo oscillava tra promesse di riforma e minacce di repressione. Il movimento non era più circoscritto al Baltico e si estendeva a tutto il paese, conquistando di fatto spazi di libertà prima inimmaginabili. Il governo tentò, con la mediazione della Chiesa, di giungere a un accordo. Nel settembre 1981 Gierek fu sostituito alla testa del governo, mentre nel partito comunista si fronteggiavano i fautori delle riforme e quelli della repressione. Mentre la forza di Solidarnosc cresceva e contagiava una parte dei dirigenti comunisti e della base del partito, il governo divenne sempre più intransigente. La possibilità di un intervento sovietico aumentava di giorno in giorno e il generale Jaruzelski, da novembre alla testa del governo, il 12 dicembre 1981 dichiarò lo stato di guerra e ordinò l'arresto dei dirigenti di Solidarnosc, primo fra tutti Lech Walesa.
Anche in Cecoslovacchia gli anni settanta furono anni di crisi, di nuovi tentativi e nuove forme di opposizione, di repressione e controllo sempre più ferreo sulla società civile. Sulla spinta delle speranze suscitate dalle risoluzioni di Helsinki sui diritti umani, nel 1977 era nato, in seguito all'arresto e al processo di un gruppo rock, il movimento Charta '77, che intendeva su una base non ideologica difendere i cittadini che avevano il coraggio di esprimere le proprie idee sui luoghi di lavoro e nella vita pubblica e privata. I dirigenti del movimento, tra cui lo scrittore Vaclav Havel, vennero perseguitati e arrestati, mentre furono soffocati tutti i tentativi di protesta operaia contro le condizioni di vita sempre più difficili.
Solo in Ungheria, almeno in parte, il regime continuò a perseguire un disegno di cauta riforma economica e di moderato permissivismo, nella speranza di evitare una crisi profonda e di bloccare la nascita di una opposizione aperta e diffusa. Negli anni '70 e nei primi anni '80 l'Ungheria fu sicuramente la democrazia popolare dove la repressione fu meno aperta e diffusa. Non così, invece, in Romania, dove pure il regime di Ceausescu cercava consensi sulla base di una maggiore autonomia e indipendenza dall'Urss.
Negli ultimi anni di Breznev la normalizzazione degli stati del blocco sovietico sembrava formalmente compiuta. La crisi economica crescente e la coscienza ormai raggiunta in quei paesi dalla maggioranza della società civile rendevano tuttavia problematico il mantenimento dell'ordine con la sola forza della repressione. Una nuova e potente spinta al mutamento venne, anche per l'Europa orientale, dalla nomina a segretario generale del Pcus di Michail Gorbacev.

7- Gorbacev e la riforma impossibile

Nel momento in cui Gorbacev diventava segretario generale del Pcus, in occidente dominava l'idea che in Urss vi fosse un regime immutabile, che la società civile fosse ad esso sottomessa e atomizzata, che la burocrazia fosse monolitica e onnipresente, che l'indottrinamento e il monopolio dell'informazione non permettessero il sorgere di una coscienza critica. Non si comprendeva che il regime politico totalitario dell'Urss non era riuscito a impedire la crescita di una realtà sociale complessa e in evoluzione, entro cui aumentavano gli spazi di autonomia e le reti di relazioni estranei al potere.
GorbaciovGorbacev, e con lui una parte della dirigenza sovietica, era convinto che l'Urss avesse bisogno di riforme profonde per uscire dalla crisi in cui era caduta. E' comprensibile che in una società strutturata come l'Urss fosse ai vertici del potere che si aveva maggiore coscienza delle difficoltà oggettive e delle necessità di mutamento: ma era sempre all'interno dei circoli dirigenti che erano maggiori le resistenze e gli ostacoli a ogni trasformazione che potesse indebolirne il ruolo, diminuirne la ricchezza, scalfirne i privilegi.
Gli appelli alla riforma incontravano, naturalmente, le aspirazioni di gran parte della società, soprattutto di quell'ampia percentuale istruita e acculturata, soprattutto in senso tecnico-scientifico, costretta dalla «stagnazione» dell'ultimo decennio e dai meccanismi del potere autoritario-burocratico a non poter esprimere le proprie conoscenze, utilizzare le proprie qualità, soddisfare i propri bisogni.
Due furono, tra le parole-chiave della riforma, quelle che ebbero maggiore importanza: la ristrutturazione (perestrojka) e la trasparenza (glasnost'). Con la prima si voleva rivitalizzare l'economia, concedendo maggiori responsabilità e autonomia ai singoli dirigenti e ai diversi settori, lasciando una crescente libertà in modo da favorire la nascita di un mercato aperto e dinamico. Con la seconda si voleva interrompere il rapporto di menzogna-sfiducia esistente tra il potere e la società, deideologizzando l'informazione e accettando di rendere libera l'espressione e pubblico il discorso politico e culturale.
Fu soprattutto la glasnost' a trovare accoglienza favorevole e a sollecitare aperture ancora più profonde e innovative. Giornalisti, scrittori, artisti, scienziati dettero il proprio contributo alla riconquista della verità e al rifiuto della menzogna, abolendo di fatto la censura e lasciando che si moltiplicassero gli interrogativi e le indagini sul passato e sul presente del regime comunista.
Non si trattò di un processo lineare e fluido. Più nella società sovietica aumentavano gli spazi di libertà e le richieste di autonomia, maggiori si facevano le resistenze di una parte importante dell'apparato burocratico e dei quadri di partito. I fautori delle riforme, tra l'altro, erano divisi al loro interno e lo stesso Gorbacev, che all'estero godeva di un crescente prestigio e della fiducia della comunità internazionale, incontrava non pochi ostacoli all'interno dell'Urss.
Il primo di essi era, ovviamente, la nomenklatura, contro cui si rivolgeva il malcontento politico e sociale della maggioranza dei cittadini: non sempre capaci di distinguere tra l'ala riformista e quella restauratrice di un partito, che veniva considerato nel suo insieme responsabile della situazione esistente. Gorbacev cercò di imporre un compromesso tra le due ali del partito, scontentando spesso entrambe e non riuscendo sempre a evitare una politica a zig-zag, contraddittoria e timida. Anch'egli, del resto, era convinto che la società fosse incapace di esprimere una propria autonomia e che solo una riforma del partito e dello stato avrebbe permesso all'Urss di trovare una nuova direzione di sviluppo.
Le riforme economiche, frattanto, si rivelarono un fallimento, incapaci di offrire una maggiore quantità di beni a prezzi accessibili. L'auspicato compromesso tra piano e mercato, tra efficacia economica e sostegno sociale, dette luogo a caos e incertezza, carenza di merci e di beni e aumento della corruzione e dell'arbitrio. Al blocco della crescita industriale si accompagnarono la ripresa dell'inflazione e l'aumento del debito pubblico, rendendo problematica la creazione di un vasto movimento sociale di appoggio a Gorbacev e alla sua politica di riforme.
Dove la politica del nuovo segretario del Pcus fu ancora più deludente e fallimentare, tuttavia, fu a proposito della «questione nazionale». I conflitti nazionali, infatti, costituirono la più pericolosa e la più inaspettata delle tensioni innestate dalla glasnost'. Dietro le affermazioni ufficiali e formali di autonomia e uguaglianza, nell'Urss era sempre prevalsa una tendenza imperiale e russocentrica nei confronti delle diverse nazionalità e repubbliche. Breznev aveva cercato di integrare le élites locali (spesso delle vere e proprie mafie a carattere burocratico) cooptandole nei vertici del partito. Con la maggiore libertà e informazione introdotte da Gorbacev, le tensioni a lungo accumulate trovano uno spazio in cui esprimersi ed esplodere. Si trattava, tra l'altro, di situazioni spesso complesse sul piano giuridico e costituzionale, di difficile soluzione per il sovrapporsi di ingiustizie passate e di aspirazioni e rivendicazioni spesso improntate al più rigido egoismo nazionalistico.
In molte aree - i paesi baltici, la Moldavia, l'Armenia, la Georgia, l'Ucraina - la lotta per l'autonomia si trasformò in pochi mesi in spinta all'indipendenza. La crisi economica rese più facile la radicalizzazione degli antagonismi etnici: molte repubbliche si sentivano discriminate e sfruttate da Mosca, ma erano pronte a perseguitare le minoranze presenti all'interno per favorire le nazionalità prevalenti e conquistare il consenso della maggioranza. Di fronte ai conflitti, anche sanguinosi, che si manifestarono in diverse parti dell'Urss, il comportamento del governo fu ambiguo e debole, favorendo così il rafforzarsi di movimenti nazionalisti estremisti, spesso guidati dalla stessa dirigenza comunista locale.
Dove la mobilitazione etnica sfociò più facilmente nel nazionalismo e nel separatismo fu nei paesi baltici (Lituania, Estonia, Lettonia), stati che erano stati annessi all'Urss con la forza nell'epoca della seconda guerra mondiale e che godevano di una situazione economica più favorevole di quella delle rimanenti repubbliche. Tra il 1988 e il 1989 le elezioni condotte in base alle nuove leggi di riforma dettero la maggioranza ai Fronti popolari: dopo accesi dibattiti sui principi della sovranità nazionale i soviet supremi dei paesi baltici si dichiararono sovrani e emendarono le costituzioni nazionali col fine ormai dichiarato di raggiungere l'indipendenza.
Nel 1988 la XIX Conferenza del Pcus aveva introdotto una riforma istituzionale di grande rilievo: il presidente dell'Urss veniva dotato di vasti poteri ed era eletto dal Congresso dei deputati del popolo. Quest'ultimo, composto da 2.250 persone (di cui 1.500 eletti a suffragio universale e 750 designati dal partito e dai sindacati) avrebbe a sua volta eletto un Soviet supremo di 544 membri. Spettava al Congresso, tuttavia, deliberare sulle riforme costituzionali, economiche, politiche. Nel marzo 1989 ebbero luogo le prime elezioni, che dettero una vasta maggioranza ai fautori delle riforme. Un anno dopo, nel marzo 1990, il Parlamento elesse Gorbacev presidente dell'Unione Sovietica.

8 - La disgregazione del blocco sovietico e la fine del comunismo nell'Europa orientale
L'elezione di Gorbacev non portò mutamenti profondi soltanto all'interno dell'Urss, ma in tutto il mondo comunista. La politica estera del nuovo segretario fu rivolta alla ricerca della sicurezza tramite l'accordo politico e il disarmo, non più con l'obiettivo della parità strategico-militare come era stato nell'epoca di Breznev. Nell'ottobre 1986 ebbe inizio il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan e nel dicembre 1987, dopo tre incontri tra il segretario del Pcus e il presidente americano Reagan, si giunse a un accordo per lo smantellamento dei missili di media portata.
Il nuovo clima internazionale segnato da una reale distensione tra est e ovest e la politica di riforme interne all'Urss convinsero le democrazie popolari che il rifiuto della dottrina Breznev e il ritiro delle truppe dall'Afghanistan significavano la fine dell'interferenza di Mosca nella vita interna dei loro paesi. Il progredire della crisi economica, insieme alla diminuzione degli aiuti provenienti dall'Urss (anch'essa in preda a una situazione difficilissima), convinsero una parte della dirigenza comunista della necessità di una maggiore apertura all'occidente e di una parziale liberalizzazione del sistema. Una scelta che allargò gli spazi faticosamente conquistati negli anni precedenti dai gruppi di opposizione e dalla società civile, al cui interno si cominciò a profilare la possibilità di una rimessa in discussione globale del sistema socialista.
In Polonia, dove il processo di autonomia era stato più profondo, si approfondirono i contatti tra il governo di Jaruzelski e l'opposizione di Solidarnosc (già alla fine del 1982 era stato abolito lo stato di guerra): rapporti favoriti da un duplice viaggio in Polonia di papa Giovanni Paolo II e solo momentaneamente ostacolati dalla concessione a Walesa del premio Nobel per la pace. Nel 1987 si svolse un referendum in cui la maggioranza si schierò a favore della democratizzazione della vita pubblica e di una riforma economica fondata sul mercato. Scioperi e manifestazioni accompagnarono la promulgazione di nuove leggi. Dopo un viaggio di Gorbacev a Varsavia, i capi di Solidarnosc e il ministro dell'interno si trovarono assieme, concordando di riunire nel 1989 una tavola rotonda che avrebbe posto mano alle riforme fondamentali di cui la Polonia aveva bisogno.
In Ungheria la contestazione nei confronti di Kadar, soprattutto per le difficoltà economiche del paese, era iniziata già nel 1985, ad opera di una nuova generazione di riformatori interna al partito e dei sindacati liberi cui era stato parzialmente concesso di agire pubblicamente. Sempre in quell'anno, per la prima volta, fu possibile presentare candidature libere alle elezioni purché all'interno del programma comune dei partiti di governo. L'anno dopo, nel trentennale della rivolta del 1956, la tv mostrò immagini significative di quell'evento favorendo una discussione che coinvolse la stampa e l'opinione pubblica e divise gli stessi comunisti.
Il nuovo capo del governo, Grosz, si mostrò disposto a concedere maggiore libertà per ottenere appoggio a una politica di austerità ritenuta indispensabile per uscire dalla crisi economica. L'informazione divenne più libera, le restrizioni sui viaggi furono abolite, si permise la nascita di associazioni politiche indipendenti. Nel 1988 Kadar cedette la guida del partito a Grosz, che promise di abbandonare presto la guida del governo. Nacque nel frattempo il Forum democratico, che raccoglieva tutte le voci critiche e di opposizione degli ultimi anni. Nel 1989 il governo, guidato adesso dall'economista Nemeth, operò una decisa scelta a favore del mercato e stipulò un accordo economico con la Cee; promettendo nel contempo di dar presto vita a un sistema politico multipartitico.
Diversa era la situazione in Cecoslovacchia, dove la repressione degli elementi di opposizione continuava senza tregua. Nell'aprile 1987 Gorbacev ottenne un grande successo popolare durante un viaggio in cui criticò, neppure troppo velatamente, la mancata liberalizzazione del regime di Praga. Nei mesi successivi anche gli ultimi liberali presenti nelle fila del partito comunista vennero eliminati, mentre ripresero le manifestazioni dei gruppi di opposizione. Nell'ottobre 1988, in occasione del 70° anniversario della creazione dello stato indipendente, la folla inneggiò a Dubcek, il leader della primavera di Praga e a Havel, lo scrittore di maggior spicco di Charta '77; che nel gennaio del 1989 venne nuovamente arrestato.
Nel 1989 il processo di trasformazione e crisi in atto nei paesi dell'Europa orientale si radicalizzò e accelerò, giungendo al suo compimento. In Polonia ebbe inizio la tavola rotonda, che si concluse in aprile con un accordo che riguardava il ristabilimento del pluralismo sindacale, la riforma economica in senso liberista, la riforma del parlamento e i poteri del capo dello stato. In giugno, per la prima volta dopo 45 anni, si tennero libere elezioni. Al senato, dove le candidature erano totalmente libere, Solidarnosc conquistò 99 seggi su 100, mentre al Sejm (la Camera) l'opposizione conquistò il 35% dei posti a disposizione (il restante 65% era per legge diviso tra i partiti al governo). In luglio il parlamento elesse Jaruzelski presidente della repubblica e in agosto venne formato il primo governo non comunista di una democrazia popolare, con alla testa Tadeusz Mazowieski, un intellettuale cattolico consigliere di Walesa.
La Polonia era ormai instradata sulla via della più completa democratizzazione e si dette una costituzione provvisoria di tipo presidenzialistico. Il partito comunista decise di sciogliersi e trasformarsi in partito di tipo laburista e socialdemocratico, mentre si moltiplicarono le nuove formazioni politiche. Nel 1991, quando ebbero luogo le elezioni presidenziali i due candidati appartenevano entrambi a Solidarnosc: vinse il confronto Walesa, che ne rappresentava l'anima populista e nazionale, mentre Mazowieski pagò il prezzo delle misure impopolari prese durante il suo governo per risolvere la crisi economica e affrettare la liberalizzazione dell'economia.
In Ungheria il processo di transizione alla democrazia avvenne senza tensioni e il passaggio a uno stato di diritto in modo pacifico. Nel gennaio 1989 caddero gli ultimi ostacoli alla libertà di associazione a manifestazione; in marzo si ricostituirono i partiti della coalizione al governo nel 1945, più altre organizzazione politiche e civili. Le reliquie di S. Stefano furono di nuovo portate in processione alla presenza delle autorità, mentre la rivoluzione del 1848 ridivenne festa ufficiale e si ripristinò la bandiera nazionale di allora. Nagy e tutte le vittime della rivolta del '56 vennero riabilitate, compreso il cardinale Mindszenty. Elezioni parziali dettero la vittoria ai rappresentanti del Forum democratico. In ottobre, dopo una revisione costituzionale, nacque la nuova repubblica «d'Ungheria», seguita da un referendum che stabilì nuove elezioni parlamentari e la nomina del presidente da parte del parlamento stesso. In maggio, frattanto, era iniziata la demolizione della cortina di ferro con l'Austria e in settembre era stato concesso ai tedeschi dell'est giunti in Ungheria come turisti di uscire dalla frontiera austro-ungherese. Nel marzo 1990 ebbero luogo le prime elezioni libere, che videro il successo dei democratici.
In Cecoslovacchia l'opposizione trasse forza dagli avvenimenti polacchi e ungheresi, proseguendo in manifestazioni e dimostrazioni di piazza che provocarono nuova repressione e altri arresti. Havel venne condannato in febbraio a 9 mesi, liberato in maggio, nuovamente arrestato in ottobre e definitivamente liberato il 4 novembre 1989. Le sue vicende personali scandirono i mutamenti dei rapporti di forza tra l'opposizione e la burocrazia di partito. Dopo la dura repressione che seguì a una grandiosa manifestazione tenuta il 17 novembre, l'opposizione raccolta nel Forum democratico indisse una dimostrazione al giorno. Dubcek e Havel divennero sempre più il punto di riferimento dei manifestanti. Il 27 novembre uno sciopero generale paralizzò il paese per alcune ore e due giorni dopo i deputati abolirono il ruolo «dirigente» del partito comunista e riconobbero il multipartitismo. Il 10 dicembre venne formato un governo di unità nazionale, a maggioranza non comunista, che giurò per l'ultima volta nelle mani del presidente Husak. Il 28 dello stesso mese, dopo lo scioglimento della polizia politica e lo smantellamento della «cortina» con l'Austria, Havel venne eletto all'unanimità presidente della Repubblica e Dubcek fu nominato presidente del parlamento. Il 30 dicembre Havel annunciò un'amnistia generale.
Fu solo in Romania che la transizione verso la democrazia avvenne con spargimento di sangue. Il regime di Nicolae Ceausescu aveva mantenuto, e per certi versi accentuato, i propri tratti totalitari, reprimendo con durezza ogni forma di dissenso, imponendo alle minoranze etniche (specie quella ungherese in Transilvania) una condizione di sopraffazione continua, riducendo più volte il livello di vita e i servizi sociali e sanitari esistenti. Fu proprio in Transilvania, a Timisoara, che nel dicembre del 1989 si ebbero le prime proteste e le prime manifestazioni: la repressione provocò un certo numero di vittime e i servizi segreti svolsero un ruolo di provocazione per alimentare il diffondersi della ribellione. Questa si estese a tutto il paese: alla vigilia di Natale Ceausescu fu arrestato insieme alla moglie e processato immediatamente in diretta televisiva. Entrambi furono fucilati. Il nuovo governo, formato in gran parte da uomini del vecchio regime e delle forze armate che si erano da poco distaccati dalla dittatura, ottenne nella primavera del 1990 l'investitura popolare con libere elezioni.
Il culmine dell'intera trasformazione che ebbe luogo nell'Europa centro-orientale fu la distruzione del muro di Berlino, iniziata tra il 7 e il 9 novembre del 1989 dai giovani di entrambe le parti della città, in un clima di grande entusiasmo e speranza. Quello che era stato a lungo il simbolo della guerra fredda diventava adesso il luogo della sua fine, annunciando la riunificazione della Germania e la scomparsa di ogni dittatura in Europa.
In Germania orientale il crollo del regime comunista seguì la falsariga di quello cecoslovacco. Il 40° anniversario della Rdt aveva visto festeggiare Gorbacev e crescere l'ostilità per il presidente Honecker. Manifestazioni giovanili, nascita di associazioni indipendenti, attività di libera discussione nelle chiese protestanti, emigrazione e fuga di migliaia di persone, per lo più tecnici e laureati, attraverso le frontiere aperte in Ungheria, costrinsero il regime a interrompere la politica di repressione. A metà ottobre Honecker fu costretto a cedere la guida dello stato, del partito e dell'esercito. Il 4 novembre 1 milione di berlinesi chiesero riforme, libertà, scioglimento della Stasi (la polizia politica). Krentz, il nuovo leader del partito, volò a Mosca e al suo ritorno nominò un governo con alla testa il riformatore Modrow. Dal 9 novembre le frontiere furono aperte, il muro venne abbattuto. Nei due week-end successivi due o tre milioni di berlinesi si riversarono nella parte occidentale della città. In dicembre venne introdotto il multipartitismo e fu disciolta la Stasi. Nel marzo del 1990 le elezioni dettero la vittoria ai cristiano democratici, aprendo la strada alla riunificazione fortemente voluta dal cancelliere della Repubblica federale Kohl e caldeggiata dalla maggioranza della popolazione orientale.

9 - La fine dell'Urss

Le riforme varate da Gorbacev non avevano risolto la crisi in cui continuava a versare l'Unione Sovietica. Le difficoltà economiche au
mentavano, insieme agli squilibri e all'incertezza per il futuro, colpendo soprattutto i ceti popolari che avrebbero dovuto trarre vantaggio dalle riforme. Le misure di liberalizzazione non erano né chiare né coerenti, creando confusione e disorganizzazione senza riuscire a ottenere in breve tempo i risultati sperati. Gorbacev divenne sempre meno popolare all'interno dell'Urss e pensò di appoggiarsi alle forze conservatrici del partito, lasciando che i democratici trovassero il loro nuovo punto di riferimento in Boris Eltsin, presidente del parlamento russo.
Fu di nuovo sulla questione nazionale, tuttavia, che Gorbacev conobbe le maggiori difficoltà. Nel marzo del 1990 il parlamento della Lituania proclamò l'indipendenza del paese, seguito a breve distanza da quelli di Estonia e Lettonia. Il governo dell'Urss reagì con il blocco economico ma la repubblica russa e i sindaci di Mosca e Leningrado appoggiarono i secessionisti. Gorbacev ordinò alle truppe d'intervenire, spinto dalle forze conservatrici del partito e dell'esercito. La mobilitazione fu immediata e imponente, all'interno come all'estero: accusato da destra e da sinistra, il presidente ritirò l'esercito e promise un referendum sul trattato che avrebbe dovuto ricostruire l'Urss su nuova base. La sua, comunque, era stata una sconfitta netta proprio come leader dell'ala riformatrice.
Lo scontro tra Gorbacev e Eltsin, nel frattempo, si andava accentuando: nell'ottobre del 1990 Gorbacev rifiutò il piano di riforme economiche presentato da Eltsin e appoggiato da tutti i democratici e dalla maggioranza del parlamento russo, preferendo quello del primo ministro Ryzkov, più moderato e che rinviava al futuro le scelte più urgenti. Il parlamento della Russia votò una legge che sottraeva all'Urss la proprietà delle risorse naturali sul suo territorio, silurando di fatto il piano del governo. I democratici chiesero a Gorbacev d'impegnarsi nel rilanciare le riforme, mentre i conservatori pretesero il ripristino dell'ordine. Furono questi ultimi che Gorbacev volle rassicurare, nominando a posti di potere e responsabilità uomini dell'apparato di partito e dell'esercito e lasciando che Sevarnadze, uomo di punta della perestrojka, abbandonasse il ministero degli esteri.
Nel gennaio 1991 in Lituania si fece nuovamente ricorso alla forza contro i nazionalisti, provocando decine di morti, ma la popolazione votò compatta il mese successivo (con oltre il 90% dei voti) a favore dell'indipendenza. Per tutti i primi mesi dell'anno lo scontro tra riformatori e conservatori si fece più aspro, mentre aumentò il numero degli scioperi e la protesta della popolazione. In giugno Eltsin fu eletto presidente della Repubblica della Russia con la prima votazione a suffragio universale. Alla sua legittimazione popolare si accompagnò la bocciatura del candidato appoggiato da Gorbacev. Quest'ultimo sembrò intenzionato a riprendere il dialogo con i riformatori, ma il potere reale sfuggiva sempre di più dalle mani dell'Urss per concentrarsi in quello delle singole repubbliche, Russia in primo luogo.
Gorbacev, in luglio, impose al partito comunista una serie di riforme per cercare di frenare la perdita di consensi sempre più evidente e rese noto il testo del nuovo Trattato dell'Unione. Per quanto confuso e contraddittorio in alcuni dei punti più importanti, questo statuto venne visto dai conservatori come la liquidazione dell'Urss e del partito comunista. Il 19 agosto un «Comitato per lo stato d'emergenza», composto dagli otto uomini più potenti che Gorbacev aveva nominato nei mesi precedenti (tra cui i ministri degli Interni e della Difesa, il capo del Kgb e il vicepresidente dell'Urss), depose Gorbacev e proclamò lo stato d'assedio.
La risposta popolare fu immediata, attorno a Eltsin e ai sindaci di Mosca e Leningrado. L'esercito si divise e le truppe golpiste esitarono a sparare sulla folla. Il colpo di stato fallì e Gorbacev poté tornare a Mosca, privo ormai di un reale potere. Nei giorni successivi ben otto repubbliche proclamarono la loro indipendenza, mentre Eltsin sospendeva le attività del Pcus e scioglieva il suo comitato centrale, smantellando nello stesso tempo il Kgb. A dicembre, dopo che anche l'Ucraina si era pronunciata con una larghissima maggioranza per l'indipendenza, i presidenti della Russia, dell'Ucraina e della Bielorussia decretarono la fine dell'Urss. Essi dettero vita a una Comunità di Stati Indipendenti (Csi), in cui il 21 dicembre decisero di confluire altre otto repubbliche. Alla fine dell'anno Gorbacev si ritraeva dalle sue funzioni di presidente di un'entità ormai inesistente. L'esperienza comunista si era ormai dissolta e conclusa anche dove aveva preso l'avvio quasi settantacinque anni prima
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